Cari amici di blog continuo (come faccio da anni) il racconto dell’evoluzione della ‘ndrangheta in un sistema criminale – il “più” raffinato sistema criminale – che va oltre, molto oltre le cosche. Un racconto che due settimane fa si è arricchito di un capitolo – tutto ancora da scrivere – in cui la fa da padrone una presunta associazione criminale dal “cuore” segreto (rimando ai miei post del 27, 28 giugno e di ieri oltre che ai servizi scritti sul portale del Sole-24 Ore e sul quotidiano).
Per restare ancorato alle origini e al contesto di quella “cintura” segreta di “invisibili” che ruota secondo il pm della Dda di Reggio Giuseppe Lombardo, secondo il pm della Dna Francesco Curcio e ora, finalmente, anche secondo la Procura, intorno alla cosca De Stefano, continuiamo con le dichiarazioni rese dal pentito Nino Fiume che quella cosca la conosce (e bene) dall’interno.
Il 14 febbraio 2013 Fiume, nell’aula bunker di Reggio Calabria, si ritrova di fronte al pm Lombardo che lo incalza e testimonierà, ancora una volta, che la cosca De Stefano è oltre ma molto oltre riti e santini e che delle associazioni segrete e degli uomini che intorno ad essa ruotano, non può proprio fare a meno. Non da oggi. Da sempre.
Nel post di ieri abbiamo visto che – ad un certo punto – Fiume parla delle coperture ad ampio respiro della cosca De Stefano, parla e descrive un giro ampio precedente (ma di molto precedente) all’avvento sulla scena di Peppe De Stefano.
Fiume – in altre parole, come sostiene il pm Lombardo e oggi con lui un intero Ufficio – descrive l’origine, il rafforzamento e il radicamento di quella cintura di “invisibili”, di “riservati”, in poche parole quell’associazione criminale e segreta (i cui soggetti sono molteplici e, al momento, per la maggior parte oscuri anche se, presumo, ben noti alla Procura che attenderà il momento adatto per raggiungerli) che, grazie al provvedimento notificato due settimane fa a otto indagati, comincia a prendere forma.
Una forma sia ben chiaro tutta da provare ma, se così fosse, comunque tardiva e non certo per colpa di Lombardo né dell’applicato della Dna Francesco Curcio e tantomeno dal capo della Procura di Reggio Federico Cafiero De Raho.
Nel corso dell’interrogatorio del 14 febbraio 2013 il pm Lombardo – che come ebbe a dirgli un presunto Servitore dello Stato qualche anno fa, se provi a fregarlo è lui a fotterti – fa finta di non capire i discorsi di Fiume sul “cerchio magico” dei De Stefano. E’ de coccio Lombardo e allora, sempre come diciamo noi romani, inziga. E inzigando inzigando…
Leggete dove arriva il pm in relazione ai rapporti della cosca De Stefano.
IL PROMEMORIA
Lombardo: Mi scusi, Fiume, Lei non sta parlando però più di rapporti così isolati: Lei sta parlando di un accordo a più ampio respiro, di più ampio respiro.
Fiume: Sì. E loro, per certi aspetti, erano usciti – codice – scottati, bruciati da queste cose. Loro, in pratica… e Giuseppe queste cose… io, Dottore, in un promemoria a pagina 70-80 – poi Lei lo vedrà – io ho toccato questi discorsi, perché ero stato a casa sua…
Lombardo: Sì, Fiume, ma non anticipi… Fiume…
Fiume: Ecco…
Lombardo: …lasci perdere – voglio dire – il contenuto degli interrogatori a cui Lei viene sottoposto. Oggi risponda alle mie domande. Le sto chiedendo… Le sto dicendo: Lei prima parlava di “persone riservate” collegate a Giuseppe De Stefano. Ora ha detto che c’è una sorta di patto, di accordo, di più ampia portata…
Fiume: Sì. Che erano questi patti che loro avevano avuto, ma erano rimasti – come dire? – erano decaduti, dopo la guerra, per certi aspetti, perché era morto il Giudice Scopelliti, eh, e là erano cambiate tante cose, però nello stesso tempo avevano continuato a coltivare le amicizie con queste persone, che… i Massoni, ecco, ho detto la parola! Siamo arrivati.
HO DETTO LA PAROLA!
Fiume – credo senza rendersene conto – dice due cose esplosive. Entrambe non dico ovvie ma sondate, analizzate e scandagliate da quei miseri cultori e studiosi della ‘ndrangheta 2.0, quella che insomma va oltre il “distributore automatico di santini e piantine”.
Fiume infatti dice che i patti erano cambiati dopo la morte del giudice Nino Scopelliti (è un caso che la Procura di Reggio abbia riaperto il fascicolo sulla sua morte nonostante le incommentabili smentite fino a qualche mese fa?) e che nello stesso tempo la famiglia De Stefano aveva continuato (non cominciato, si badi bene) a coltivare le amicizie con i massoni. E lì Fiume si libera – con la parola e la frase tanto temuta: «…massoni, ecco ho detto la parola! Siamo arrivati» – di un peso enorme ma non comprende fino in fondo il capitolo che la Procura di Reggio Calabria – alle prese con mille tessere di uno stesso puzzle che parte dagli anni Settanta e segna tutte le tappe della cosiddetta evoluzione democratica del Bel Paese – è stata chiamata a riaprire. Vale a dire il ruolo, eventuale, della massoneria deviata e servente rispetto alla 'ndrangheta e Cosa nostra nell’uccisione del giudice il 9 agosto 1991.
Eh sì perché quella frase (innocentemente?) buttata lì – «…era morto il Giudice Scopelliti, eh, e là erano cambiate tante cose, però nello stesso tempo avevano continuato a coltivare le amicizie con queste persone, che… i Massoni…» può voler dire la massoneria deviata può aver avuto interesse (o ruolo) nell’eliminazione di un giudice per tanti versi scomodo.
Visto che la storia è storia (anche se a Reggio Calabria per anni lo hanno dimenticato) basti leggere quanto scrisse quasi 20 anni fa l’ex numero due della Dna Alberto Cisterna.
IL CASO SCOPELLITI
Nel rinvio a giudizio del 30 marzo 1994, ore 20.45, scritto con un’antidiluviana macchina per scrivere e dunque pieno di cancellature e riscritture, nei confronti di un pugno di persone accusate per l’omicidio di Scopelliti, un giovane Gip del Tribunale di Reggio Calabria, appunto tal Alberto Cisterna, che pagherà anche per questo suo fermo, rigoroso e netto provvedimento, scriverà infatti delle cose molto ma molto importanti, rilette a distanza di 19 anni e alla luce del frenetico movimento delle pedine sullo scacchiere della
giustizia calabrese.
Alle pagine 8 e 9, infatti, Cisterna scriverà che le intercettazioni trascritte e all’epoca depositate dalla difesa degli imputati per l’omicidio Scopelliti non potevano orientare il procedimento penale verso una causale alternativa dell’omicidio, ad esempio di natura privata.
Da pagina 9 a pagina 14 Cisterna scriverà che il delitto fu deliberato dalla criminalità organizzata locale e venne maturato a causa dell’imminente giudizio in Cassazione del maxiprocesso a Cosa nostra dove Scopelliti avrebbe sostenuto la pubblica accusa ma alla fine di pagina 15 arriva una prima, micidiale stoccata.
«Ciò posto – scrive infatti Cisterna firmando inconsapevolmente una delle sue tante condanne a morte professionali – occorre pur precisare che la ricostruzione operata dall’Ufficio di Procura nell’individuazione della causale dell’omicidio (sia in sede di richiesta di misura coercitiva che di rinvio a giudizio) non appare del tutto persuasiva…».
Ma la vera mazzata arriva da pagina 17, secondo capoverso. «Spetterà al dibattimento chiarire un coacervo indiziario assolutamente equivoco sul punto – scrive infatti – , verificare l’opportunità di approfondire taluni rapporti e conoscenze dell’alto magistrato. Una circostanza, ad esempio, meritevole di una più attenta disamina è quella delle pretese amicizie massoniche che il dr. Scopelliti avrebbe vantato e di cui riferisce Scopelliti Antonietta nel suo interrogatorio del 2.4.1992, così come quella dei rapporti con ambienti politici romani vicini alla corrente dell’on. Andreotti (v.dich. Scopelliti, dr. Antonucci, on. Vitalone, on. Fumagalli) che sarà duramente colpita in Sicilia pochi mesi dopo dall’uccisione dell’on. Lima Salvatore. La necessità di attuare un attento controllo sul punto si rende, d’altronde, evidente laddove si abbia riguardo alla comune causale che salda i due gravi episodi delittuosi, destinati entrambi (e, sia chiaro, secondo prospettive affatto difformi) a realizzare la strategia di Cosa nostra sulla celebrazione in Cassazione del maxi processo».
LE FONTI DI PROVA
E tra le principali fonti di prova sul ruolo dei componenti della Commissione di Cosa nostra e ai collegamenti tra questa e la ‘ndrangheta, al punto 4) a cavallo tra le pagine 18 e 19 del suo provvedimento di rinvio a giudizio (caduto poi nel vuoto e dunque all’epoca nulla ebbe seguito), Cisterna cita l’informativa del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato del 18 dicembre 1992 indirizzato alla Dda di Reggio Calabria in cui si ribadisce «l’importanza di Mandalari Giuseppe da Palermo, commercialista e massone, uomo vicino a Salvatore Riina e operante a partire dagli anni 70 nella zona di Villa San Giovanni».
A pagina 41, per essere chiaro ancora una volta, Cisterna scriverà che dalle fonti di prova si desume in modo certo ed inequivoco la riconducibilità alla Commissione di Palermo della deliberazione di uccidere Scopelliti, «sia pure (come detto) per fini che occorrerà più attentamente deliberare in sede dibattimentale».
Sbaglierò ma nel fascicolo riaperto sulla morte del giudice Scopelliti, quella cerchia di “invisibili” e “riservati” tornerà ad affacciarsi e potrebbe portare a non poche sorprese che non escludono, nello stesso omicidio, l’aggravante per aver agito a tutela e negli interessi di un cuore “segreto” e mafioso comune a ‘ndrangheta e Cosa nostra.
4 – to be continued (le precedenti puntate sono state pubblicate il 27, 28 giugno e il 9 luglio).
r.galullo@ilsole24ore.com