C’è qualcosa che mi sfugge nella lotta alle mafie.
Per la verità, ho l’umiltà di affermare che mi sfuggono tante cose ma limitiamoci all’odierna riflessione (che avevo anticipato nel post della scorsa settimana, al quale rimando a fondo pagina con un link).
Leggo che un gruppo di persone – alcune delle quali da me stimate, altre lontane anni luce dalla mia coscienza – intendono riunirsi, partendo dalla Sicilia, per dar vita al «manifesto per una nuova antimafia. Non quella dei pennacchi, delle solidarietà ai magistrati, delle associazioni bagnate dai fondi pubblici, del collateralismo con la politica. Un’antimafia che rinasca dalle ceneri di se stessa, che ridia credibilità a un movimento investito da scandali e inchieste giudiziarie».
Questo, almeno, è quanto ha scritto il 23 aprile il collega Emanuele Lauria sulle pagine siciliane della Repubblica.
Sfido chiunque a decriptare il reale valore della frase “un’antimafia che rinasca dalle ceneri di se stessa” e a dare un senso all’equidistanza (tale appare) da politica e magistratura. Ma perché esiste una politica degna di questo nome in Italia, soprattutto sui temi della legalità, della prevenzione e del contrasto alle mafie corruttive? Se sì, non me ne sono accorto. E come potranno politici ed ex politici che firmeranno il manifesto a non essere collaterali con la politica? Misteri gloriosi.
E come si fa a non esprimere solidarietà a persone (qualunque Servitore dello Stato degno di questo nome) che rischiano la vita per dare una speranza di Giustizia a ‘sto Paese? Altro mistero glorioso.
In altre parole, sapete già come la penso sul “valoroso popolo antimafia organizzato”: no, grazie.
Non ne ho mai avvertito l’esigenza, non ne sento la mancanza, ne apprezzo incommensurabilmente l’assenza. Non è bastata neppure la lezione, non di ieri ma da illo tempore, di Francesco Campanella, cresciuto tra i boss della mafia di Villabate prima di diventare collaboratore di giustizia, che insegna come sia facile fare il gioco delle mafie nel nome dell’antimafia.
Se proprio si sente la necessità di associarsi a qualcosa o a qualcuno, che non sia l’adesione ai valori e ai principi costituzionali oltre il proprio personale impegno quotidiano in ambito professionale e familiare, Libera (con tutti i suoi tanti pregi e i molteplici difetti) basta e avanza. Don Luigi Ciotti, per la Misericordia, è partito oltre 20 anni fa dal basso e ha costruito tanto negli anni, sporcandosi le mani nel fango e innalzando verso l’alto le coscienze.
Nulla contro le persone del nascituro manifesto (ripeto, stimate alcune, almeno per i nomi che si leggono o che filtrano tra le indiscrezioni del momento) ci mancherebbe. Ciascuno, inoltre, è libero di organizzarsi come crede, promuovere quel che vuole, ondeggiare come meglio ritiene.
Ma soprattutto nuotare per restare a galla.
Molti dei sapienti alla ricerca di un timone da guidare nel mare dell’antimafia, sono o sono stati, invece, dotti professoroni (avercene!) partiti dall’alto per dare ordini ai timonieri nelle stive.
Già perché ho la netta sensazione che – all’interno delle novelle arabe fenici, che come l’uccello mitologico vogliono rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte (altrui) – che quel che conti sia imbarcarsi sulla nave della legalità per restare a galla. Rectius: su “una” nave della legalità. La qualunque.
Voglio essere chiaro: non sto focalizzando la riflessione sul nascituro manifesto siciliano (ne rappresenta solo l’abbrivio), anche perché non vorrei che potesse credere di essere davvero importante.
Nossignori, il discorso vale per tutti i gruppi, gruppuscoli o noccioli di persone che si stanno agitando, ora come non mai, su per li rami italici, pronti a brandire l’autentico vessillo dell’antimafia nel nome “der valoroso popolo italiano”.
Una guerra tra duri e puri che più duri e puri non si può, giustappunto nel momento in cui crolla, in tutta Italia, quell’antimafia alla quale moltissimi di loro – attenzione, attenzione – hanno fornito credito e supporto, quando non ne sono entrati persino in comunione di intenti (per se o per i propri familiari o vicini), pronti poi a prenderne le distanze o stordirli in un rumorosissimo e vigliacco silenzio, quando non a emettere sentenze sostituendosi ai giudici.
Guardateli bene: sono sempre gli stessi i campioni dell’antimafia parolaia, spesso pompati da un architrave giudiziario depositario del sapere unico nella lotta alle mafie. Sempre gli stessi nomi, sempre le stesse facce, che fanno ormai parte di un circo autoreferenziale e auto elogiativo, “dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine, tenea dietro al baleno, scoppio da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar”. Pochi, come loro, a tutte le latitudini e longitudini del suolo italico, sono in grado di restare impermeabili a chi non fa parte del circo e non ambisce a entrarvi. Anzi: proprio per questo, il pensiero unico che sorregge la bandiera dell’antimafia è lo stesso del Conte Onofrio del Grillo ai popolani dell’osteria appena arrestati dopo una rissa nella quale era rimasto coinvolto: “Me dispiace. Ma io so io e voi nun siete un cazzo”.
Pochi, come loro, sanno attraversare le tempeste, uscendone sempre indenni. Pochi, come loro, udite udite, la pensano in maniera non dico dialetticamente diversa (è il sale della democrazia, cvibbio!) ma ferocemente opposta nell’analisi dell’esegesi mafiosa, della sua evoluzione e delle tecniche e delle tattiche di prevenzione e contrasto.
Sarebbe come mettere Rocco e Sacchi a sedere sulla stessa virtuale panchina solo perché sono stati entrambi allenatori. Si, va beh, ma la squadra chi la guida e come? Boh, che ce frega, pensano costoro nei vari gruppuscoli antimafia in giro per l’Italia, intanto “noi semo pronti ad allenà er valoroso popolo dell’antimafia”.
C’è chi vuol restare a galla per una visibilità politica. Presente e futura. Una visibilità politica sulla quale costruire, ricostruire o perpetrare all’infinito il proprio consenso elettorale. Che, sì, porta voti, ma soprattutto patenti di verginea attendibilità e portafogli pieni a fine mese allorché si entra, si resta o si punta ad entrare in un assemblea elettiva.
C’è chi vuol restare a galla perché così può continuare a intascare, in giro per l’Italia, consulenze e prebende a botte di centinaia di migliaia di euro all’anno garantendo qualche riunione alla quale invitare sempre gli stessi compagnucci della parrocchietta, che così “se fa ggruppo e tendenza” , un paio di documenti e il gioco (dell’antimafia alla vaccinara), voilà, è fatto.
C’è chi vuol restare a galla per una visibilità associativa, così può rivendicare all’interno del proprio nucleo di riferimento (vuoi imprenditoriale, vuoi Istituzionale, vuoi accademico, vuoi associativo, vuoi professionale, vuoi ecclesiastico) che la sua verginità antimafia – tendenza immacolata beatitudine – è attestata e garantita al limone!
C’è chi vuol restare a galla perché non c’ha niente da fare ma soprattutto non ha più nulla da dire (ammesso, in taluni casi, che l’abbia mai avuto) ma riesce a dirlo talmente bene che c’è chi continua a credere ai suoi versetti satanici del sapere antimafioso scritti sulle tavole del nulla.
Tutti pronti – si badi bene – ad assegnare, non si sa bene sulla base di quale autorità superiore, patenti automobilistiche di antimafiosità. Tu si, tu no, tu studia, allineati e ripassa. Come se le recenti vicende che negli ultimi due/tre anni hanno attraversato l’Italia non fossero servite da monito nell’assegnazione delle autorizzazioni alla guida.
No, mi spiace, ma per quel che mi riguarda, la lotta alla mafia è una cosa troppo seria per lasciarla nelle mani delle bandiere antimafia. Da qualunque parte esse provengano per svettare.
No nel mio nome, grazie.