Cosa nostra e ‘ndrangheta/ Riservati o invisibili: la cupola è “cosa loro”. Ed è in gran fibrillazione

Da tempo – da anni – la cupola invisibile di Cosa nostra e ‘ndrangheta (quella per intenderci che va oltre i dannati capi militari o tenutari conclamati delle sacre regole mafiose come, che so, Riina, Provenzano, Messina Denaro, don Mico Oppedisano) è agitata dalle indagini.

No, non da quelle già svelate ma da quelle in corse delle quali – chissà come mai e vi prego di intendere la mia come una riflessione retorica – è sempre informata o tenta disperatamente di informarsi e, di conseguenza, mettere in atto sottilissime e raffinatissime strategie volte a screditare gli organi investigativi e inquirenti, oltre che quel poco che resta di informazione libera.

Ebbene – in questo momento storico, nel quale la cupola ha capito che la lettura di quanto accaduto in Italia dalla fine degli anni Settanta in poi sull’asse Palermo-Reggio Calabria non può che essere unitaria – le scosse telluriche interne aumentano e aumentano non solo i pericoli (in primis la delegittimazione) per chi indaga e vuole scoprire l ”altra metà della verità” ma per la stessa tenuta della democrazia.

Non siamo certo a un passo da scoprire tutte le “altre metà della verità” ma – senza dubbio – siamo alla vigilia di terremoti interni alle cupole dorate di Cosa nostra e ‘ndrangheta. I segni premonitori ci sono tutti, a partire dal nervosismo (recentissimo) di certi ambienti che fanno da corona di spine ai Palazzi di Giustizia.

In Calabria già molto si è fatto (e si sta facendo anche in queste ultime settimane) e va dato atto a un pacchetto di mischia di pm, Gip e giudici vari, di aver rotto un muro di ipocrisia (nel migliore dei casi), paura (nell’ipotesi di mezzo) e collusione (nella peggiore delle ipotesi) che regge un mondo fatto, oltre che di ‘ndrangheta, anche (e sempre più) di Servitori infedeli dello Stato, massoni con il grembiulino sporco, politici allevati a santini e vangelo e professionisti (ivi inclusi gli indegni della mia categoria) che hanno tradito principi, diritti e valori sacri, nel nome dell’illegalità.

Altri frutti non tarderanno ad arrivare ma è bene riportare l’attenzione alla Sicilia, a quell’asse di Reggio Calabria con Palermo e Caltanissetta che potrebbe portare in dono quelle che taluni tenteranno di vendere per “sorprese” e che tenteranno di svendere per “folli visioni” ma che tali – per chi non si accontenta delle “mezze verità” – non sono e non sono mai state.

Bene, da questo punto di vista, è bene valutare ancora una volta con molta attenzione il provvedimento con il quale la Procura di Caltanissetta (pm facente funzioni Lia Sava, aggiunto Gabriele Paci, che hanno delegato le indagini alla Dia guidata dal colonnello Giuseppe Pisano e Gip Alessandra Bonaventura Giunta) hanno individuato Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

A Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando ad un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l’assassinio del giudice, veniva temuta l’ascesa alla Procura nazionale antimafia.

Una “supercosa” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell’altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo ’92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata ad uccidere Falcone o, in subordine, l’allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi come Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo.  Una “super Cosa nostra” che era il sintomo dell’ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l’eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato (ne ho già scritto e per questo rimando al link http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/02/02/super-cosa-nostra-e-cosa-nuova-le-indagini-sulle-mafie-in-sicilia-e-calabria-allepoca-di-riservati-e-invisibili/ oltre al servizio che scrissi sul Sole-24 Ore).

Questa “super Cosa nostra” – che richiama nell’immaginario i sordidi e negativi super eroi – secondo le evidenze fin qui maturate dall’accusa nissena mette in risalto (e ne passato analoghi tentativi processuali falliti furono già compiuti dalla Procura di Palermo e segnatamente da Roberto Scarpinato) che Cosa nostra è unitaria ma ci sono delle enclave mafiose che sono…più uguali delle altre. Esattamente come accade per la ‘ndrangheta (unitaria da poco per sentenza definitiva ma in realtà unitaria per interessi e rapporti di forza dalla fine degli anni Sessanta e, dunque, nessuna novità) dove tutte le cosche sono uguali ma la “mamma” è sempre la “mamma”. E di “mamma” ce n’è una sola.

Il provvedimento dei magistrati nisseni dedica paragrafi di ricostruzione storica alle Commissioni provinciali e regionale siciliana di Cosa nostra e riporta (da pagina 137) quel che si legge nella sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992. La Corte di Cassazione, nel confermare la correttezza della ricostruzione operata dai giudici di merito, precisò come la competenza della Commissione regionale andasse posta in relazione alla finalità di preservare la regola dell’interpello degli altri rappresentanti provinciali e della collegialità deliberativa rispetto ai nuovi rapporti, caratterizzati – scrive il Gip nisseno Bonaventura Giunta – dall’«indiscutibile predominio “politico” della cupola palermitana, “corresponsabilizzando” gli alleati e coinvolgendoli nelle decisioni più importanti per evitare di finire isolati e di fungere da capro espiatorio sotto l’incalzare dell’azione repressiva dello Stato».

Insomma tutti uguali ma a Palermo – sotto gli ordini di Riina che, non dimentichiamolo mai, non è mai stato sostituito al vertice della Commissione anche se ultimamente segnali di sostituzione elettiva sembrano emergere dalle investigazioni – c’è sempre qualcuno che è più uguale dei trapanesi, dei nisseni e via di questo passo. Esattamente come accade in Calabria, dove tutti sono uguali ma la “cosca allargata” De Stefano/Tegano/Libri/Condello – per dire – è più uguale delle altre.

Leggiamolo insieme ora il brano della sentenza della Cassazione riportata dal Gip Bonaventura Giunta: «I rapporti tra la Commissione provinciale di Palermo e quella regionale non devono ricondursi nell’ambito di un rapporto gerarchico di sovra ordinazione di uno dei due organi rispetto all’altro, bensì vanno considerati nell’ottica dell’indebita autonomia di ciascuna provincia, autonomia che comportava quale inevitabile conseguenza la necessità di sottoporre all’autorizzazione anche dell’organo rappresentativo di tali autonomie tutte quelle questioni sulle quali di solito già vi era stata una decisione della Commissione di Palermo, che potevano produrre effetti rilevanti anche sulle altre province…appaiono pertanto conformi a verità le convergenti dichiarazioni rese da coloro che ancora all’epoca della strage di Capaci rivestivano importanti cariche all’interno di Cosa nostra, secondo cui anche in questo periodo le decisioni riguardanti gli omicidi “eccellenti” di maggiore rilievo dovevano essere sottoposte all’autorizzazione della Commissione regionale ove ciascuna provincia era titolare di un voto al pari di quella di Palermo».

Insomma: Palermo decideva e gli altri (attraverso la cupola regionale) ratificavano. Come accade in Calabria dove la “mamma unitaria” decide e gli altri ratificano. Dalla fine degli anni Sessanta e indipendentemente dal sigillo dello Stato in una sentenza (benvenuta anzi, più che benvenuta). Tanto in Sicilia quanto in Calabria – però – le cupole sono state scoperchiate a metà. L’altra metà è nascosta. La speranza è che lo sia – sull’asse Palermo-Caltanissetta-Reggio – ancora per poco. Le fibrillazioni e le reazioni inconsulte sono lì a testimoniarlo.

r.galullo@ilsole24ore.com

  • Roberto Galullo |

    Mai scritto di “organismo unitario” dedito al crimine. Questa non sarebbe follia (come giustamente scrive) ma fantascienza cinematografica e letteraria. Vale a dire la “Spectre” di bondiana (nel senso di James Bond) memoria. Cosa diversa è ritenere assolutamente logiche, pertinenti, oserei dire geneticamente naturali, le interazioni tra mafie all’interno delle quali prevalgono poi i rapporti di forza alimentati cetto non solo dall’ala militare ma vieppiù dal resto della maggioranza azionaria (Stato deviato etc etc). Quanto poi a Riina, etc etc, mi ha mai visto paragonare, che so, un Riina ad un don Mico Oppedisano? Altri – a partire dalla mia categoria – lo hanno fatto per anni, traendone applausi a scena aperta, alimentati dai cultori del tifo interessato (nelle procure, negli uffici giudiziari, negli organi investigativi, tra i cosiddetti espertoni parolai dell’antimafia etc etc etc).

  • bartolo |

    non è che voglio proteggere le super-cupole… è che mi piace essere realista. e la realtà è che non esiste nessuna super-cupola oltre a quella di roma. pensare che un organismo unitario dedito al crimine e al malaffare sia composto oltre che dalle mafie anche da pezzi deviati dello stato e della massoneria, è pura follia. come è pura follia accomunare un personaggio come oppedisano, ndranghetista che a novant’anni non è mai stato indagato neppure per il furto di una gallina, a riina, provenzano e messina denaro, processati e condannati per efferate stragi e assassinii. comunque sia, mi auguro abbia ragione lei: è tristissimo vivere con la consapevolezza di essere suddito di uno stato che si nutre di mafia.

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