Consorzi, appalti e mafie: dopo l’allarme di Franco Roberti ecco il Ddl (e la relazione) della senatrice Pd Lucrezia Ricchiuti

Chi ha acquistato sabato e domenica scorsi il Sole-24 Ore, avrà avuto modo di leggere i miei servizi sulla grave denuncia fatta Franco Roberti. Secondo il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo – che lo anche gridato nell’audizione del 17 settembre in Commissione parlamentare antimafia – c’è una falla nel codice antimafia (lettera b dell’articolo 85) che spalanca alle mafie le porte dei consorzi che partecipano alle gare di appalto (per la lettura dei servizi rimando al quotidiano).

Dopo questa denuncia la senatrice del Pd Lucrezia Ricchiuti, ex vicesindaco di Desio (Monza Brianza) ha presentato ieri una proposta di legge secondo la quale la documentazione antimafia, se si tratta di associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese, deve riferirsi anche «alle società di capitali anche consortili ai sensi dell’articolo 2615 ter del codice civile, per le società cooperative, di consorzi cooperativi, per i consorzi di cui al libro V, titolo X, capo II, sezione II, del codice civile, al legale rappresentante e agli eventuali altri componenti l’organo di amministrazione, nonché a ciascuno dei consorziati ed ai soci o consorziati per conto dei quali le società consortili o i consorzi operino in modo esclusivo nei confronti della pubblica amministrazione».

In questo modo, secondo la firmataria, si ricuce quella smagliatura denunciata da Roberti, secondo il quale si può entrare in un consorzio con una partecipazione inferiore o pari, salvo i patti parasociali, al 10% e non si è tenuti alla documentazione antimafia. Un varco attraverso il quale – e le indagini che la stessa Dnaa sta conducendo lo dimostrano, al punto da aver allertato già una direzione distrettuale alla quale altre ne seguiranno – si sono inseriti innanzitutto le cosche calabresi e i Casalesi, attraverso il ricorso a prestanome.

Di seguito troverete la relazione al ddl, con la quale la senatrice Ricchiuti accompagna il provvedimento – questo è l’augurio – si spera abbi vita facile e cammino velocissimo. La legalità, infatti, non ha colore politico e non ammette il minimo ritardo.

 LA RELAZIONE AL DDL DELLA SENATRICE RICCHIUTI

Onorevoli senatori! La presenza pervasiva e insidiosa delle mafie nell’economia è un tema ormai storico della realtà italiana. Che il crimine organizzato si sia insediato nell’economia c.d. legale è un dato di fatto di tutto il mondo, ma – per sventura o per fortuna – secondo i punti di vista, in Italia, la riflessione sui modi di prevenzione e di repressione di questa infiltrazione è più avanzata.

Fin dai primi anni 1990 dello scorso secolo, la legislazione del nostro Paese conosce la certificazione antimafia, volta a far sì che gli interlocutori contrattuali della pubblica amministrazione rivelino i loro connotati e offrano alle prefetture elementi per controllare le caratteristiche della compagine sociale che domanda di contrarre con le amministrazioni pubbliche o di ottenere provvedimenti di autorizzazione e concessione.

Oggi, questa materia è declinata in modo assai strutturato. La documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione e dall’informazione, intese qui come definizioni tecniche e non nell’accezione del linguaggio comune (v. l’art. 84 del decreto legislativo n. 159 del 2011).

Mentre la comunicazione reca l’attestazione che – a quella data – l’imprenditore richiedente non è destinatario di provvedimenti giudiziari impeditivi (per esempio, condanne penali o misure di prevenzione antimafia e altri indicati nell’art. 67 del medesimo decreto legislativo n. 159 del 2011), l’informazione è il frutto di un’indagine più complessa, perché è volta ad attestare che – alla data – non vi sono tentativi d’infiltrazione mafiosa nell’impresa interessata. A loro volta, tali tentativi possono essere evinti da altri sintomi che pure il decreto legislativo n. 159 indica all’art. 84, comma 4.

A oggi, l’intero apparato amministrativo dell’Interno ha accumulato una vastissima e preziosa esperienza sui modi con cui le cosche mafiose si inseriscono negli appalti pubblici, ne condizionano lo svolgimento e si accaparrano i lavori.

Molte prefetture italiane custodiscono un enorme patrimonio conoscitivo che si rivela indispensabile per la lotta al cancro mafioso che mette a rischio la stessa sopravvivenza dello Stato.

E’ così che le prefetture possono emanare le c.d. comunicazioni interdittive, vale a dire provvedimenti che inibiscono a talune imprese di entrare in contatto con la pubblica amministrazione, di falsare la concorrenza e, in definitiva, di giovarsi del danaro pubblico.

Nondimeno, la guerra alle mafie non è mai vinta. A parte la sottovalutazione di troppi settori della politica del problema della criminalità organizzata – che si salda talora con vigliacche complicità – anche la disciplina legislativa richiede una continua opera di manutenzione e di aggiustamento.

Il 16 settembre 2015, ascoltato in una audizione formale presso la Commissione d’inchiesta sulle mafie (istituita con legge n. 87 del 2013), il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ha evidenziato una falla nella disciplina della documentazione di prevenzione.

All’art. 85 del decreto legislativo n. 159 sono indicati i soggetti che devono dotarsi, richiedendole alle prefetture competenti per territorio, di comunicazione e informazione (in una parola: i certificati).

Ebbene, nel caso di imprese consorziate, l’art. 85, comma 2, lett. b) prevede attualmente che l’obbligo di richiedere i certificati grava: per le società di capitali anche consortili ai sensi dell’articolo 2615-ter del codice civile, per le società cooperative, di consorzi cooperativi, per i consorzi di cui al libro V, titolo X, capo II, sezione II, del codice civile, sul legale rappresentante e sugli eventuali altri componenti l’organo di amministrazione, nonché su ciascuno dei consorziati che nei consorzi e nelle società consortili detenga una partecipazione superiore al 10 per cento oppure detenga una partecipazione inferiore al 10 per cento e che abbia stipulato un patto parasociale riferibile a una partecipazione pari o superiore al 10 per cento, ed ai soci o consorziati per conto dei quali le società consortili o i consorzi operino in modo esclusivo nei confronti della pubblica amministrazione.

In buona sostanza, quanti detengano partecipazioni in tali consorzi minori del 10 per cento non devono chiedere alcun certificato e quindi non stimolano nelle prefetture alcun tipo di verifica su presenza o condizionamento mafioso nella compagine sociale o consortile.

A parere di Franco Roberti si tratta di una grave lacuna, perché attraverso le forme consortili, le imprese espressione delle cosche mafiose possono agevolmente eludere il sistema dei controlli, pur altrimenti molto sofisticato.

Queste sono le ragioni per cui propongo – con somma urgenza – che il Senato e poi il Parlamento tutto prenda in esame la modifica dell’art. 85 citato ed elimini la soglia del 10 per cento.

r.galullo@ilsole24ore.com

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