Per chi avesse scoperto solo con l’inchiesta Mondo di mezzo che Roma è (tante) mafie ed è ancora convinto che le mafie esistano anche senza Roma (vale a dire senza quel coacervo tempestoso, cangiante e quasi sempre impunito fatto di politica corrotta, classe dirigente marcia, professionisti collusi, servitori dello Stato infedeli e penne vendute), ecco pronto da leggere questo istruttivo pezzo di storia italiana.
Nei primi mesi della III legislatura (dal 12 giugno 1958 al 15 maggio 1963) il senatore Psi di Legnago Guido Giacometti richiamò l’attenzione del Parlamento sul fenomeno della criminalità mafiosa. L’allora ministro dell’Interno Fernando Tambroni (che in quella legislatura, alternandosi con i Dc Amintore Fanfani e Antonio Segni assunse anche la carica di primo ministro), nel corso della discussione del bilancio del proprio ministero, nella seduta della Camera del 24 ottobre 1958 osservò però che la recrudescenza dei delitti di mafia nella Sicilia occidentale non si traducesse in un aumento della delinquenza, ma nella «reiterazione» (A.C. Ili, p. 3307) della delinquenza in alcuni determinati settori.
Il 27 novembre 1958 vennero presentati al Senato ed alla Camera dei deputati rispettivamente il disegno di legge n. 280/S di iniziativa dei senatori Psi Luigi Fabbri (e altri) e la proposta di legge n. 609/C di iniziativa del deputato di Messina, sempre del Psi, Vincenzo Gatto e di altri deputati, che prevedevano l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.
Su queste iniziative parallele e identiche nel testo, si sarebbe aperto, nell’aprile 1961, il dibattito, tormentato e difficile, che avrebbe poi condotto all’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta.
Intanto, però, continuava a svolgersi nei due rami del Parlamento una serrata discussione politica sul tema della mafia.
Nel marzo 1959, episodi delittuosi di natura mafiosa, come l’attentato al giornale siciliano L’Ora e gli omicidi verificatisi negli ambienti della mafia dei mercati ortofrutticoli, avrebbero dovuto indurre il Senato a riflettere, sosteneva il pediatra e senatore trapanese del Psi (ma nato a Montemaggiore Belsito, Palermo) Simone Gatto (successivamente coinvolto in un alcune intercettazioni del 6 marzo 1970 con un mafioso trapanese, inserite nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare a opera del deputato del Msi Giuseppe Nicolai; il senatore Gatto spedì una lettera alla Commissione per chiarire l’episodio e per giustificare quella telefonata), nello svolgere una sua interpellanza al ministro dell’Interno, come la mafia fosse diventata «in armonia coi tempi, mafia dei consorzi di bonifica, degli appalti, delle organizzazioni economiche e di categoria». Di fronte a questi fenomeni e alla esistenza «di intimi legami tra politica di ambiente governativo e lotta di potere da parte delle cosche mafiose», erano necessarie, «una valutazione e una pubblica presa di coscienza». La mafia, proseguiva il senatore Gatto, «tende irresistibilmente a farsi alleata dei governi, dei partiti di maggioranza, degli stessi organi dello Stato … tende a configurarsi e valorizzarsi come elemento del sistema di conservazione politica ed economica » (A.S. pag. 4214), così da porre alla società non già «un comune problema di sicurezza pubblica, (ma) un problema di moralità politica ed amministrativa; … un problema di alte connivenze da smascherare e recidere; un problema infine di arcaiche strutture economiche da rinnovare radicalmente» (A.S, pag. 4215).
Ecco la straordinaria attualità…
Tutto ciò che vi ho raccontato finora non è per far sfoggio di documenti della Commissione parlamentare ma per anticipare e preparare degnamente la successiva riflessione del senatore Gatto che dimostra come Roma (ben al di là dell’indegno verminaio scoperchiato dall’indagine Mondo di mezzo) sia molto altro e molto oltre Mafia Capitale da oltre…50 anni!!!
Il dramma è che la politica e la classe dirigente che hanno accompagnato questo Paese in tutti li rami hanno preferito concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle drammatiche mafie di maniera, fino a poco tempo fa raccontate solo con coppola e lupara, formaggio e cicoria. Da troppo tempo (che penso non sarà mai recuperato dall’orologio politico e da quello giudiziario) è molto altro, pur mantenendo salda quella criminalità rurale, ancestrale, violenta, disgustosa, becera e selvaggia che ha i recenti ed eccellenti nomi di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Mallardo, don Mico Oppedisano e chi più ne ha più e metta.
Il Parlamento, esortava il senatore Gatto, avrebbe dovuto impegnarsi, attraverso l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla mafia, a «far luce su una piaga che non è regionale, ma nazionale, se è vero che non è concepibile attività e impunità della mafia senza Roma» (A.S. pag. 4215).
E’ o non è meravigliosa questa affermazione datata 1959! Ve la ripeto: «…se è vero che non è concepibile attività e impunità della mafia senza Roma»
E’ vero, è verissimo ma per chi governa da sempre, a tutti i livelli, questo Paese, va bene così madama la marchesa!
Fantastica (lasciatemelo dire) la risposta fornita dall’allora sottosegretario all’Interno della Dc Guido Bisori, che dimostra gli anni luce che la politica ha scientemente perso (e continua scientemente a perdere) nella lotta ai sistemi criminali.
Mentre non si faceva riferimento alla proposta di inchiesta parlamentare, si sosteneva come la criminalità mafiosa, particolare forma di delinquenza, dovuta ad una «nota tendenza a farsi giustizia da sé» (A.S. pag. 4216), propria della zona occidentale della Sicilia, rendesse difficile l’opera della polizia di Stato che, peraltro, aveva conseguito notevoli successi.
Attenzione: non pensiate che oggi, se dipendesse solo dalla politica, questa stessa identica risposta non sarebbe replicata. Non dimentichiamoci che fino a qualche anno fa c’erano magistrati, questori e prefetti che negavano l’esistenza della mafia a Roma e a Milano. Solo che un pizzico di cosiddetta opinione pubblica (o cosiddetta società civile, fate voi) rende oggi più arduo il compito.
Il senatore Gatto ribadì, nella replica dovuta, che se si fosse limitata la mafia ad un problema di pubblica sicurezza, non era possibile tentare di risolvere il fenomeno che invece doveva essere colpito agendo «sulla situazione siciliana nelle sue radici, in quelle radici che allignano insieme alle radici stesse del fenomeno delinquenziale» (A.S. pag. 4218).
Analoghe considerazioni, ispirate ad insoddisfazione per la risposta del Governo, erano espresse dal senatore catanese Antonio Caruso, firmatario di una interrogazione, presentata nella stessa seduta del primo marzo 1959, che criticava «l’indifferenza che, se protratta avrebbe potuto diventare complicità» (A.S. pag. 4218), con cui il Governo aveva accettato «il sovragoverno delle forze delinquenziali in Sicilia» (A.S. pag. 4218). La mancanza di una politica di profonde riforme di struttura avrebbe continuato a favorire la mafia che si alimentava dei rapporti sociali esistenti: di fronte a tale carenza dell’azione governativa, «agisca il Parlamento» (p. 4219), esortava il senatore Caruso, attraverso l’istituzione, proposta dal senatore Gatto, di una Commissione parlamentare di inchiesta.
Dopo poco più di un anno durante la discussione sul bilancio del Ministero dell’interno nel luglio 1960, il Senato approverà all’unanimità quello che può considerarsi l’atto parlamentare che aprirà la via alla istituzione della Commissione d’inchiesta sulla mafia, e cioè l’ordine del giorno presentato dai senatori Simone Gatto, Riccardo Fabbri e del Pci palermitano Giuseppe Berti.
r.galullo@ilsole24ore.com
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