Sul mancato scioglimento della Capitale credo che in questo ultimo mese abbondante, nel quale valenti penne si sono sbizzarrite (spesso a comando o a gettone di “presenza”), sia stato detto molto. Ma non tutto.
Ritemprato da un mese di vacanza passata a lavorare, fare cose e vedere gente – come insegna Nanni Moretti – mi diverto a mettere in linea tre riflessioni semplici semplici sulle quali se pensassi di avere il primato, farei innanzitutto torto alla mia umile intelligenza.
Roma come Fondi: non certo come Reggio Calabria!
Che Roma andasse sciolta per mafia come è accaduto (tardivamente) per il Comune di Reggio Calabria credo che ne siano convinti, per primi, coloro che hanno fatto i salti mortali per fare in modo che il consiglio comunale capitolino non venisse sciolto. Ha però prevalso il calcolo politico: Reggio Calabria val bene una messa. Roma no, figuriamoci.
Vi invito – a quest’ultimo proposito – a concentrarvi per un attimo su un particolare sfuggente e apparentemente estraneo alle riflessioni. Apparentemente.
Chi si avvicina ai fili della Capitale muore, si brucia o – cosa prevalente – capisce che deve scendere a più miti consigli.
Come accadde quando il mondo della cosiddetta antimafia (concetto che aborro) si stupì del mancato scioglimento, il 9 ottobre 2009, del Comune di Fondi, in provincia di Latina ma a pochi passi da Roma, territorio dove, grazie alla presenza di un mercato ortofrutticolo sotto esame da sempre, Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra hanno dato vita da decenni ad un simpatico (spero che anche gli imbecilli colgano l’ironia) laboratorio criminal/politico nel quale intingevano il becco su su fino a Roma professionisti, politici locali e nazionali, (im)prenditori, Chiesa assente e via di questo passo. Lo scioglimento non ci fu perché il Governo cincischiò, studiò, approfondì, ristudiò, riapprofondì e ricincischiò fino a che non prese atto dell’autoscioglimento del consiglio comunale di Fondi (dietro sapiente suggerimento) che gli evitò il dramma di una soluzione scontata ma da evitare come la peste: mandare tutti a casa per infiltrazioni mafiose.
Reggio Calabria (sciolta sempre tardi per mafia) val bene una messa. Se non la vale Fondi, figuriamoci Roma!
Il no allo scioglimento per mafia del Comune di Fondi da parte del consiglio dei ministri è una decisione «incredibile» e «sconcertante», disse il senatore del Pd, ex componente della Commissione parlamentare antimafia ed ex prefetto di Roma, Achille Serra. «È incredibile – disse Serra – non solo per il tempo trascorso prima della decisione del consiglio dei ministri dalla presentazione della relazione del prefetto al ministro ma anche, e soprattutto, perché la richiesta di scioglimento era stata presentata dallo stesso ministro dell’Interno, Roberto Maroni. C’era dunque, l’avallo di Maroni sulla relazione del Prefetto Bruno Frattasi, che è frutto di un lavoro tecnico della commissione prefettizia». Le motivazioni di questa decisione, per Serra, «non sono chiare. Io auspico che a brevissimo il ministro dell’Interno venga in audizione in Commissione antimafia».
Serra sbagliava, ohibò: erano talmente chiare che nessuno si presentò in Commissione antimafia. E il caso – uno dei più neri dei tempi recenti della (presunta) democrazia italiana – finì li. Nessuna barricata, nessuna sollevazione popolare e il cosiddetto popolo antimafia zitto e muto!
A Roma – dove «quando voi eravate ancora a dipingervi sugli alberi, noi eravamo già froci» come rispose quel principe romano al diplomatico statunitense che lo infastidiva sull’amoralità ai temi della dolce vita – er popolo antimafia non è mai esistito, non esiste e non esisterà mai. E’ dunque facilissimo – per la pervasività dei comportamenti amorali che pervade da sempre la Capitale – calpestare quel poco di dignità rimasta e compiere qualunque scelta. Anche quella di non commissariare una città che andrebbe commissariata (come il Sud a partire dalla Calabria intera) per anni e anni.
Un segnale alla Procura
Punto secondo: il mancato scioglimento di Roma è un messaggio chiarissimo che la politica (l’intero arco parlamentare ad eccezione dei Cinque Stelle, che politicamente parlando aborro visceralmente ma tant è, il mio mestiere non può ammettere soggettività) spedisce dritto dritto alla Procura di Roma. E alla magistratura tutta. Colpirne uno per educarne cento.
Il ragionamento – sul quale non pretendo che concordiate, anzi: se riuscite a smontarmelo o a contraddirlo ne sarei contento perché il sale della democrazia è il pensiero libero – è il seguente.
La Procura di Roma – che piaccia o meno, che si concordi o meno sulla rivelazione di un’associazione mafiosa, perché su questo dovrà esprimersi un dibattimento processuale e dovranno decidere poi uno o più giudici – ha scoperchiato un verminaio di rare proporzioni. Un merdaio – se lor signori non si impressionano del termine – epico. Che a Roma – sia ben chiaro – esiste da sempre. Con certezza – nella sua evoluzione solo in minimissima parte scoperchiata dall’indagine Mondo di mezzo nella quale fa appena appena capolino il mondo di sopra, quello che tira le fila – da quando sono nato. A Torbellamonaca, dove abitava mio zio poliziotto (sic!), anche le mura negli anni Settanta sapevano che lì comandavano i Casamonica. Vedrete che fra 40 anni arriverà un pool di magistrati che scoprirà che 40 anni prima il quartiere di San Basilio era un laboratorio criminale che, nel frattempo, era libero di far pascolare i propri rifiuti della società in giro per la città a co-governare il traffico di droga e a corrompere, comprare e influire.
All’indomani dello scoperchiamento del verminaio e per lunghi mesi, la politica si è sperticata in lodi verso la Procura di Roma e del suo capo, Giuseppe Pignatone. “Bene, bravi, bis. Colpite duro, colpite ancora, andate avanti, siamo con voi”.
A parole. Poi vengono i fatti. I fatti sono che il guinzaglio della politica alla magistratura deve essere tenuto sempre morbido ma poi al momento opportuno, zacchete, si accorciano le distanze, si dà una stretta al collo e si fa capire qual è il padrone che guida.
Se la Procura di Roma si fosse presentata alla prima udienza fissata a novembre nel processo “Mondo di mezzo” con lo scioglimento del consiglio comunale capitolino – capirete – sarebbe stato un colpo in più nella canna della pubblica accusa. Dopo il pronunciamento del Tribunale della libertà, dopo quelli della Cassazione, ecco il terzo indizio di una solida associazione mafiosa. E tre indizi fanno una prova. Forse anche per i giudici di primo grado. Forse che sì, forse che no. In ogni caso la pubblica accusa si sarebbe trovata a provare le proprie convinzioni, supportata da una cartuccia in più.
Poteva la politica permettere questo dopo che – nel dipanarsi delle indagini mi auguro non ancora concluse – è uscito che la politica di ogni colore era, è (e spero non sarà) pappa e ciccia con il mondo di sotto? Destra, centro o sinistra, tutti uguali nel minestrone del mondo di mezzo: Franza o Spagna, purchè se magna!
Ora per la pubblica accusa sarà più dura dimostrare le proprie solide convinzioni. E, soprattutto, si può arrivare fino ad un certo punto. Il mondo di mezzo, appunto. Il mio augurio è che venga colpito senza pietà il mondo di sopra. A Roma, come a Palermo, a Torino come a Reggio Calabria.
L’indegna secretazione
C’è un terzo punto che vi prego di non sottovalutare. La relazione su Roma del superprefetto superloquace Franco Gabrielli è stata secretata. Ora qualunque essere umano – ed è una riflessione che feci quasi due anni fa quando vennero secretate le relazioni sullo scioglimento del Comune di Reggio Calabria – si dovrebbe chiedere: ma perché l’hanno secretata? Fatto salvo che le parti diciamo così, intime, avrebbero potuto essere omissate e sbianchettate (ad esempio qualche nome e qualche cognome), perché le motivazioni di una commissione d’accesso al lavoro per mesi, che scava e si lorda le mani in quel lurido verminaio, devono essere secretate e nascoste ai romani?
Perché – anziché essere affissa all’Albo pretorio ed essere distribuita tra i banchi delle scuole, degli uffici e dei luoghi di lavoro – quella relazione è stata secretata e celata ai romani e ovviamente agli italiani tutti?
In nome di quale diritto superiore (quello di casta?) il diritto dei romani, figli dunque di un dio minore, a conoscere, sapere, divulgare e decidere, è stato calpestato?
Ebbene: si è mosso un solo politico contro questo scempio della democrazia? Un solo consigliere municipale? Non pretendo un politico nazionale…Nulla. E i pentastellati grilleggianti dove sono? A loro non è venuto in testa di chiedere la diffusione del marcio (solo in parte) certificato? Zero carbonella come diciamo noi romani.
La magistratura – spesso prodiga a passare carte quando gli fa comodo e a indagare per ricettazione (sic!) quando non gli fa comodo se le carte arrivano sulle scrivanie dei giornalisti – si guarda bene dal prendere posizione perché stare fermi, zitti e muti, a Roma, è sempre la scelta migliore. Soprattutto quando i messaggi arrivano forti e chiari.
L’unico, a prendere un “friccico” (traduco per i non romani: un “pizzico”, n’anticchia) di posizione è stato, il 10 luglio, su www.omniroma.it Repubblica Roma, Alfonso Sabella, ex magistrato antimafia a Palermo e poi assessore alla Legalità nella Capitale: «Non abbiamo la relazione perché si tratta di un atto secretato ma è penoso vedere che esca a spizzichi sugli organi di stampa. O la relazione resta secretata altrimenti mi infastidisce non poter conoscere formalmente almeno i passi del documento che riguardano i singoli dirigenti per poter così almeno agire con gli strumenti dell’amministrazione in attesa delle decisioni del ministero dell’Interno e del cdm, in una logica di collaborazione istituzionale. E’ paradossale che si tratti di una relazione coperta da segreto ma poi si ritrovino parti anche virgolettate sui mezzi stampa».
Non credo che Sabella ignori il contenuto integrale di quella relazione ma se così fosse sarebbe un paradosso nel paradosso. Non solo Roma (che non è solo il Campidoglio, anzi) è volontariamente tenuta all’oscuro ma persino chi è chiamata a co-governarla lo è!
Ci sarebbe poi da riflettere a lungo sul fatto che prima della presentazione della relazione di Gabrielli qualche manina abbia allungato le indiscrezioni (quelle ritenute utili e accettate supinamente da una stampa pronta a chinarsi a obiettivi non propri) e poi i “fini cervelli” che avevano alimentato quella manina hanno deciso che l’avvertimento era arrivato e si potevano dunque chiudere i rubinetti, ma questo è un discorso che porterebbe lontano.
Mi accontenterei – e concludo – che qualche politico chiedesse e ottenesse che quella relazione sia resa pubblica erga omnes e distribuita a tutti come si fa con gli snack nei distributori automatici.
Non dico un’interpellanza o un’interrogazione e neppure un banchetto, ma la dettatura di una misera agenzia di stampa…
Va dato atto che il 27 agosto i deputati di Alternativa libera hanno diffuso il seguente comunicato stampa: “Apprendiamo con stupore che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha presentato al Consiglio dei ministri la sua relazione sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Roma senza preoccuparsi di pubblicare il documento. Se il Governo non ha nulla da nascondere, si sbrighi a rendere disponibile per tutti i cittadini le valutazioni fatte da Alfano e condivise dall’intero Consiglio dei ministri. E’ impossibile che si decida di non commissariare il Comune di Roma senza renderne pubbliche le motivazioni“.
E’ troppo chiedere una forte presa di posizione ai politici miei concittadini (sono romano per chi non lo avesse capito finora) affinché dimostrino con un sussulto di dignità di tenere alla res pubblica e non a miseri interessi di miserabile bottega politicante?
r.galullo@ilsole24ore.com
SI VEDA ANCHE http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/09/09/mafia-capitale-non-e-concepibile-attivita-e-impunita-della-mafia-senza-roma-anno-domini-1959/