Trattativa Stato-mafia/1 Il pentito Francesco Di Carlo da latitante incontrava i vertici dei servizi segreti e uomini della P2

Tra i testimoni che il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) hanno chiamato nel processo penale sulla trattativa tra Stato e mafia c’è anche Francesco Di Carlo.

Costui, nell’ambito della famiglia mafiosa di Altofonte, è stato consigliere, sottocapo e anche capo famiglia. Due zii, due fratelli, un fratello e un cognato della mamma erano Cosa nostra. Insomma, una famiglia rodata. Poi, nel 1978 si è dimesso, senza perdere i contatti con i capimafia. Anzi. Si è dimesso per come andavano le cose ad Altofonte nella sua famiglia e perché, senza essere avvisato, avevano ucciso l’ex rappresentante di

Altofonte, che poi era diventato un soldato semplice, Salvatore La Barbera, ucciso nell’agosto ’78.

Di Carlo, dall’accusa, viene chiamato a riferire non solo della sua appartenenza alla mafia siciliana ma anche dei rapporti intrattenuti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, di quanto a sua conoscenza sui rapporti tra l’imputato Antonio Subranni, i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’onorevole Salvo Lima; sui suoi rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri anche con riferimento ad investimenti operati da Cosa nostra in attività imprenditoriali riconducibili a Silvio Berlusconi.

Tutte cose (e molte altre ancora) delle quali riferirà nelle udienze del 30 gennaio, del 27 febbraio e del 6 marzo. Tutte cose delle quali ci occuperemo in una serie di servizi che ho deciso di dedicare alla sua lunghissima deposizione.

Prima, però, andremo a leggere insieme altre rivelazioni che costui ha fatto.

Non sta a me giudicare dell’attendibilità delle cose dichiarate da questo mafioso, diventato nel ’96 testimone di giustizia. Le prove si formano in un’aula di Tribunale e dunque la sua è una versione che dovrà reggere e affrontare ogni grado di giudizio ma quel che racconta è da brivido.

E’ da brivido una cosa fondamentale, che rappresenta il filo rosso (o nero) che lega tutta la sua deposizione: la familiarità che conclama con gli apparati dello Stato, quegli apparati dei quali avrebbe dovuto essere nemico e antagonista sociale e che invece, nei suoi racconti, quasi sempre dettagliati e raccontati parzialmente anche in altre occasioni processuali, diventano talvolta amici in affari.

LE RADICI LONTANE

Una familiarità tale che, ad un certo punto, ad una domanda del pm  Nino Di Matteo risponde così: «una volta, non so chi è stato, mi ha chiesto, dice, in Cassazione come aggiustavate i processi? Io ho risposto: ma perché, quando arrivavano in Cassazione i processi di Cosa Nostra? Ma nemmeno in Appello. Questa era la realtà di quel periodo. Non di quel periodo, di una vita, almeno, da anni 60 in poi».

Di questa familiarità, per come lui stesso la descrive come testimone diretto, vi racconterò per come emerge da quelle tre udienze. Ne scrivo perché, se troverà continuità nelle altre deposizioni e nelle prove, testimonierebbe inequivocabilmente che le radici della trattativa affondano in tempi remoti, in periodi in cui la contiguità tra Stato deviato e Cosa nostra era già nei fatti, indipendentemente dagli attori. Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Attendiamo da sempre di sapere chi organizzò la strage di Portella della Ginestra o chi decise di uccidere il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (solo per citare due casi).

VITO MICELI

Una familiarità che lo farà entrare in contatto con Vito Miceli, generale, direttore del Sid (Servizio informazioni della Difesa) dal 18 ottobre 1970 al 30 luglio 1974 e poi parlamentare del Msi dal 1978 al 1987, morto il 1° dicembre 1990. Iscritto alla P2 di Licio Gelli e coinvolto in una grave vicenda giudiziaria (il tentato golpe Borghese del ’70) ne uscì assolto con formula piena. Per sua stessa ammissione, Di Carlo conosce Miceli alla fine degli anni Sessanta.

Ma non ne è amico e con una testardaggine che se sarà apprezzata non sta a me dirlo, riferirà a Di Matteo: «Mi scusi che faccio una differenza, frequentare quando uno si frequenta, ma conoscenza che due – tre volte, per occasioni che dovevano parlare gente di Cosa Nostra o, che ne so, per una cosa che dovevano sbrigare, l’accompagnavo o meno, non è una frequentazione, perché la frequentazione la interpreto come amicizia. Non si può chiamare amicizia, però una buona conoscenza perché… ».

GIUSEPPE SANTOVITO

Perché l’amicizia è una cosa seria e allora Di Carlo, sempre nell’udienza del 30 gennaio, dice di riservarla a Giuseppe Santovito, generale dell’Esercito anch’esso e capo del Sismi (il servizio di informazione militare) dal ’78 all’81, morto il 6 febbraio 1984. Anch’ egli risultava iscritto alla P2 ma da quello scandalo uscì con tutta la forza che aveva, smentendo ogni coinvolgimento.

Con Santovito c’è amicizia, «perché se io andavo a Roma lo incontravo, è capitato due – tre volte di andare a pranzo insieme, è capitato in una riunione che si è fatta nel 1980 mi sembra, sì, prima che si scoprisse la lista della P2 e cose, perché è stato nell’81 che si è scoperta la lista, la famosa lista della P2, perciò è stato prima, è stato nell’80, a fine 80, che c’è stata una riunione e io ero nell’ufficio di Lima a Roma intendo. Con Nino Salvo, io ero latitante, con Nino Salvo siamo andati a questa…E ci siamo frequentati. Ma anche con Santovito ci siamo frequentati a Palermo, mi veniva a trovare al castello. A Palermo siamo stati anche in una festa… ».

Tutti insieme appassionatamente: Cosa nostra e servitori dello Stato.

E su quella riunione dell’80 nel Lazio, quando lui era latitante, torna nell’udienza del 27 febbraio, quando specifica che «la riunione è stata in una villa vicino Latina, la montagna, c’è una montagna. Circeo, mi sembra così si chiamava. E c’era una grande villa che poi ho capito che questa villa era di proprietà di un petroliere, uno che commerciava con il petrolio, Ortolani, non mi ricordo più, Umberto Ortolani. Ma c’erano tante persone, io ho accompagnato a Lima e a Nino Salvo. Lima no, mi sembra che Lima non c’era, Nino Salvo, con Nino Salvo sono andato, e là c’era l’Avvocato Guarrasi, che hanno parlato, che erano tutti iscritti alla P2, per quello che ho capito. Ma c’eravamo tanta gente che aspettavamo anche fuori, di cui io ho conosciuto varie persone. In questa riunione ho conosciuto pure chi accompagnava Santovito, che era ai tempi, questo che lo accompagnava, era un… o era maggiore o era capitano dell’Esercito pure, come Santovito. E ci siamo messi poi a parlare anche noi, loro hanno avuto questa riunione, si parlava di quello che avevano intenzione di fare. Di quello che ho capito io, volevano ripetere quello che non si era fatto nel 1970, che non aveva potuto fare il Principe Borghese e altra gente».

MARIO FERRARO E L’ALLEGRA LATITANZA

Chi accompagnava in quella riunione Santovito era, secondo la ricostruzione di Di Carlo, Mario Ferraro, anch’egli dei servizi. Fu trovato morto il 16 luglio 1995 a casa sua, a Roma, impiccato con la corda dell’accappatoio al portasciugamani del bagno. L’inchiesta sulla sua morte fu archiviata dalla procura di Roma.

Ma torniamo al punto: Di Carlo era latitante. E, la domanda sorge spontanea, poteva il capo del Sismi Santovito incontrarsi deliberatamente con un latitante senza sapere della sua condizione? La domanda gliela pone anche Di Matteo e Di Carlo risponde così: «E con Santovito posso dire che eravamo… Frequentare, amici, perché poi quando sono stato latitante a Roma ci siamo visti, mi ha detto che se avevo bisogno di qualcosa, tutto quello che abbiamo bisogno, abbiamo  continuato». Di Matteo incalza: «Era consapevole, quando vi incontravate a Roma e lei era latitante, del suo stato di latitanza?». Disarmante Di Carlo: «Ma certo». Di Matteo vuol vederci chiaro fino in fondo ed essere certo delle risposte: «In quel periodo, però mi segua con le domande e se è possibile dia risposte precise, in quel periodo il Colonnello Santovito era in forza a qualche servizio segreto o ancora nell’esercito? Per quella che è la sua conoscenza, poi… ». Di Carlo risponde: «Dal 78, ma prima che andava a fare il direttore del Sismi, mi sembra che si chiamasse Sismi ai tempi, nel ‘78 già sapevo che doveva andare là a dirigere, perché prima era a Palermo e poi se ne è andato a Roma». E Di Matteo: «Quindi quando vi incontravate a Roma e lei era latitante, il Colonnello Santovito che cosa faceva?». Di Carlo ribadisce: «Era il direttore del Sismi».

Per ora mi fermo qui ma domani, solo domani, vi racconterò perché Di Carlo ha deciso solo adesso di raccontare molto, ma molto più di quanto finora ha raccontato nelle aule giudiziarie e nei suoi libri (uno è imminente).

r.galullo@ilsole24ore.com

1 – to be continued