Le 896 pagine della sentenza di primo grado del Tribunale di Locri (Reggio Calabria) del cosiddetto processo Crimine sono state firmate il 13 luglio 2013 dal presidente Alfredo Sicuro e dai due giudici estensori Adriana Cosenza e Giovanna Sergi. Le motivazioni di quella sentenza si conoscono però da poche settimane.
La ricostruzione è nota ai più (sono ormai 4 anni che quella indagine viene descritta) ed è nota ai più, dunque, anche la ricostruzione della ‘ndrangheta unitaria, tema conosciuto dal 1969 (post riunione di Montalto), che dunque personalmente non mi appassiona più di tanto perché, in fondo, quel che conta è l’evoluzione della ‘ndrangheta.
Almeno così la penso io e penso anche (sono opinioni strettamente personali) che pur in un quadro di gerarchie che fanno parte del dna della ‘ndrangheta, con cariche e doti sintetizzate ogni anno a Polsi, le grandi famiglie reggine o platiote o sanlucote viaggino con i propri binari facendo attenzione a non pestarsi i piedi (o addirittura stringere patti di non belligeranza) e a non fare scempio di quelle regole rinnovate ogni anno in quella sorte di cresima laica che si svolge su per le impervie vie aspro montane.
Continuo a pensare (sbaglio? Forse sì a con la mia capa) che una loggia coperta sia più decisiva di una radura aspromontana e che un battesimo massonico (deviato) sia più influente di una pungitina. Ripeto: sbaglio? Può darsi. Ma non credo.
Le evidenze giudiziarie ahimè non seguono le lancette del tempo e arrivano sempre troppo tardi.
Fatto sta che sono almeno venti anni che questa “cosa nuova” è stata servita sul proscenio processuale senza, ahinoi, trovare adeguato conforto probatorio.
Venti anni? Mi sbaglio in difetto. Nel gennaio 1979 il Tribunale di Reggio Calabria, pronunciando la sentenza del giudizio penale “De Stefano Paolo + 59”, rivelava la nascita di «una nuova mafia, nuova nelle tecniche, nuova negli insediamenti, nuova nei contenuti economici», che il giudicante affermava essere «l’ombra che segue il
potere economico e politico dovunque esso stabilisce la sua residenza» (pag. 163 della sentenza del 1979).
Ma la “cosa nuova”, sempre “più nuova”, è lì, giudiziariamente latente e oggi, forse, comincia a prendere corpo non solo con i processi Meta ma anche con altri processi e in diverse indagini e con lo stesso processo Crimine/Infinito. A quest’ultimo proposito abbiamo letto la lunga, articolata, preziosa memoria che i pm Antonio De Bernardo e Gianni Musarò hanno depositato in sede di appello Crimine (si veda archivio). Preziosa perché “pre”figura oltre a figurare l’evoluzione.
Ma anche in queste motivazioni del Tribunale di Locri ci sono spunti preziosissimi. Da pagina 82 si da infatti corpo dapprima alla descrizione della “Santa” (di “gratteriana” memoria, sintesi della massoneria deviata sposata alle cosche) e poi…
E poi con onestà intellettuale, i giudici scrivono che «per quanto emerso nel presente processo, pur venendo in rilievo l’esistenza di doti ulteriori ovvero di denominazioni parzialmente differenti delle stesse attribuzioni… le stesse non trovano qui univoca attestazione, limitandosi, piuttosto a lasciar intendere la sussistenza di scenari non ancora rivelatisi dinanzi ai competenti organi di giustizia».
Giusto fermarsi lì (del resto la macchina della Giustizia nel frattempo sta arricchendo questo spazio evolutivo) e rimandare ad un nome di un pentito di calibro (secondo le evidenze giudiziarie perché come sapete, io, personalmente dei pentiti calabresi mi fido come ci si potrebbe fidare di un avvoltoio nel deserto) come Antonino Belnome, il quale afferma di non potersi pronunciare riguardo al successivo ordine di potere che, tuttavia, sapeva doversi ravvisare nella massoneria: «nella massoneria io non posso entrare nello specifico, perché sono arrivato alle sue porte, quindi non essendoci entrato non vi posso spiegare a livello massonico nulla, so solo che me ne parlò Vincenzo Gallace, Andrea Ruga, che esiste la massoneria». Su una cosa come questa credo che definirlo attendibile sia poco: di più. Iperattendibile. E sapete perché? Perché chi tocca quei fili muore e, saggiamente, Belnome cosa (ci) dice? Che si è fermato alle soglie, all’uscio di un mondo massonico deviato nel quale entrano gli eletti o i meritevoli di far carriera in arti e mestieri utili alla cupola mafiosa.
Nello stesso senso, ricordano i giudici in sentenza, si incardinano i cenni resi da un altro collaboratore di giustizia, Paolo Iannò, volti a profilare i collegamenti dei vertici associativi con la massoneria, oltre che con elementi deviati della politica e delle istituzioni (verbale del 17 maggio 2013).
Nondimeno, scandagliando le risultanze investigative, si legge nella sentenza dei giudici di Locri, anche il Capitano Valerio Palmieri (all’epoca Comandante della sezione I del Reparto operativo nucleo investigativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria), «tangeva l’inesplorato ambito della massoneria, facendo riferimento ai cosiddetti “invisibili” che, secondo quanto percepibile già da alcune intercettazioni (al riguardo, il teste faceva riferimento alla figura di Domenico …omissis… rappresentata come emblematica di un contestuale radicamento sia nella ‘ndrangheta sia nella massoneria».
Quello che fa specie è che i giudici (e per questo vanno ringraziati) hanno il coraggio di scrivere dell’«inesplorato ambito della massoneria…». In Calabria, ma vi rendete conto? E’ come dire che in Brasile arrivano i botanici per studiare l’inesplorato mondo dell’Amazzonia. E quando, di grazia, investigatori e inquirenti si renderanno conto (tutti) che la ‘ndrangheta non finisce a Polsi, Cosa nostra a Corleone e la camorra a Caserta? Quando e come verranno “esplorati” coralmente e come obiettivo di vita, i “nuovi mondi”?
Ora, visto che gli appassionati dell’”unitarietà” della ‘ndrangheta sono tanti (sia chiaro: il 90% non sa neppure di cosa parla e, soprattutto, di cosa scrive) vorrei che fossero tutti concordi nel proseguire l’essenziale e consequenziale ragionamento. Se di unitarietà si deve parlare (e, ripeto, non solo la riconosco ma in questi termini ormai profilati dalla pubblica accusa e dai giudici ne sono grato) è bene capire che il concetto deve estendersi a quella “rete invisibile” che pochi magistrati, osteggiati se non isolati o peggio sottoposti a tentativi di delegittimazione, dalla Sicilia alla Calabria, dal Lazio alla Campania, stanno cercando di portare a galla. Sapendo una cosa: che la prova in giudizio è fondamentale ma la verità processuale non è l’unica verità. Ergo: le indagini e i processi stanno già mettendo all’angolo “pezzi” di quella “rete invisibile” ma, indipendentemente dagli esiti e da quel che il futuro giudiziario ci riserverà, sfido chiunque a pensare davvero che riti e santini, cavalieri e pungitine, siano l’architrave della mafia 2.0.
E’ interesse di tutti, credo, fare in modo che si vada “oltre”, a caccia di quegli invisibili che da anni, sono sotto i riflettori, ad esempio della Procura di Reggio Calabria. E’ interesse di tutti, credo, fare in modo che il passaggio del testimone, da un Tribunale all’altro, sia quanto più veloce possibile per togliere il sipario che copre gli “invisibili” e con essi nasconde l’altra parte della verità.
r.galullo@ilsole24ore.com