Falange Armata si rifà viva con la lettera a Totò Riina ma la sua presenza borderline è vecchia: le indagini dei pm di Palermo

Due giorni fa i bravi colleghi di Repubblica (a cui si deve se non erro la primogenitura) e poi molti altri, hanno rilanciato la notizia della breve lettera che la sedicente Falange Armata ha spedito nel carcere di Opera (Milano) al boss Totò Riina. «Chiudi quella maledetta bocca – è scritto nella lettera fermata ancor prima che giungesse al boss – ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi». Firmato: Falange Armata.

Ora è bene ripercorrere – proprio attraverso quanto scoperto in questi anni dalla Procura di Palermo – l’inquietante presenza di questa sigla che appare (e scompare) in molte vicende buie della democrazia italiana.

Restiamo però ancorati a Palermo e alle cronache più recenti. Il 7 marzo 2013 il Gip Piergiorgio Morosini ha rinviato a giudizio a vario titolo Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, Nicola Mancino, Mario Mori, Salvatore Riina e Antonio Subranni nell’ambito del processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra.

Nel capitolo focale, vale a dire quello sulla «elaborazione della strategia stragista di Cosa nostra a cavallo tra il 91 e il 92. Sugli obiettivi e sui collegamenti con “altri ambienti” anche in vista di nuovi equilibri politico-istituzionali con progetti di tipo eversivo-separatista», si leggono (da pagina 7) cose molto illuminanti.

Dall’esame delle fonti, si legge nel decreto di rinvio a giudizio, si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, «rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa».

Secondo l’accusa, nel perseguimento di questo progetto, Cosa nostra sarebbe alleata con consorterie di “diversa estrazione”, non solo di matrice mafiosa (in particolare sul versante catanese, calabrese e messinese). E nelle intese per dare forma a tale progetto sarebbero coinvolti “uomini cerniera” tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria, quali ad esempio Vito Ciancimino (e qui la Procura rimanda alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sul coinvolgimento del padre nelle vicende di Gladio, Ustica e del caso Moro).

Nella riunione di Enna di dicembre 1991, in cui Salvatore Riina, prevedendo un esito per lui infausto del primo maxi-processo in Cassazione, traccia le “linee guida” di un piano di “destabilizzazione” della vita del paese per obiettivi eversivo-separatisti, vanno evidenziate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Leonardo Messina, Filippo Malvagna e Giuseppe Pulvirenti.

I PENTITI

Il collaboratore di giustizia Filippo Malvagna rese dichiarazioni nel processo per la strage di Capaci, sintetizzate nella sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta il 26 settembre 1997.

Malvagna, rievocando quanto dettogli da Pulvirenti, riferisce della riunione di Enna del 1991, alla presenza di Salvatore Riina e Benedetto Santapaola, degli obiettivi concordati e delle decisioni assunte anche con riferimento alle modalità di realizzazione degli attentati.

Rivendicazione degli attentati – si badi bene ora – che doveva avvenire con la sigla della Falange Armata nell’ambito di un più ampio disegno di destabilizzazione della vita del Paese.

 

LA DIA DI PALERMO

Proprio con riguardo alle minacce avvenute dal ‘92 al ‘94 e sui caratteri che le legherebbero tutte ad un unico disegno criminoso di ricatto allo Stato, a partire dall’omicidio di Salvo Lima, la Procura di Palermo evidenzia le indicazioni ricavabili a pagina 58 dell’informativa della Dia del 4 marzo 1994 a firma del Capo reparto investigazioni giudiziarie, Pippo Micalizio.

La Dia registrò che la Falange Armata aveva rivendicato l’omicidio di Salvo Lima, e poi le stragi di Capaci e di via D’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro e Milano. A questi attentati va aggiunta la rivendicazione da parte della Falange Armata di un altro omicidio, quello del maresciallo Giuliano Guazzelli, detto il “mastino” per le sue capacità investigative, avvenutoil 4 aprile 1992.

La Procura di Palermo, inoltre, evidenzia la fonti che attribuiscono sempre alla Falange Armata le minacce direttamente rivolte a “personaggi chiave” delle istituzioni, all’epoca dei fatti, coinvolti a vario titolo nella repressione degli illeciti mafiosi.

 

LE SENTENZE

Le fonti primarie sono le sentenze del Tribunale di Roma del 17 marzo 1999 e della Corte di Appello di Roma del 20 novembre 2011 (divenute irrevocabili il 15 luglio 2002), emesse nel processo a carico di tale Carmelo Scalone, accusato di partecipazione all’associazione Falange Armata, violenza e minaccia aggravata a pubblico ufficiale e attentato a organi costituzionali dello Stato.

Secondo le sentenze, i soggetti minacciati sono:

1) l’onorevole Vincenzo Scotti, ministro degli Interni, il 16 giugno 1992;

2) l’onorevole Nicola Mancino, ministro degli Interni, il 19 novembre 1992, i giorni 1 e 21 aprile 1993, il 19 giugno 1993;

3) Vincenzo Parisi, capo della Polizia, il 19 novembre 1992, il 1 aprile 1993 e il 19 giugno 1993;

4) il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il giorno 1 aprile 1993 e i giorni 19 e 21 settembre 1993;

5) Adalberto Capriotti, all’epoca direttore del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il 16 settembre 1993;

6) Francesco Di Maggio, all’epoca vicedirettore del Dap, il 16 settembre 1993;

7) il presidente del Senato Giovanni Spadolini, il 21 aprile 1993.

Va ricordato, sempre richiamando le sentenze relative all’imputato Scarano, che la Falange Armata, il 14 giugno 1993, ebbe modo di manifestare la sua soddisfazione per la nomina di Adalberto Capriotti come direttore del Dap, al posto di Nicolò Amato, considerand
o la sostituzione di quest’ultimo come una vittoria della stessa Falange Armata.

Le medesime sentenze dell’autorità giudiziaria capitolina ricordano che le rivendicazioni da parte della Falange Armata sono state spesso utilizzata in Italia per assecondare piani eversivi orditi da sodalizi di vario genere, in una prospettiva di destabilizzazione della vita politico-istituzionale italiana.

 

LA LISTA DEI TESTIMONI

I pm palermitani del processo sulla trattativa Stato-mafia, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, nel presentare il 17 maggio 3013 la lista dei testimoni, avanzano tre nomi che proprio su Falange Armata potrebbero avere qualcosa da dire.

Maurizio Avola, per riferire in merito «alla sua appartenenza a Cosa Nostra, al ruolo ricoperto nella predetta organizzazione; a quanto a sua conoscenza sulla deliberazione della strategia stragista, sul ricorso per le rivendicazione degli attentati alla sigla della Falange Armata, nonché sui rapporti di conoscenza con Rosario Pio Cattafi»; il Tenente colonnello Massimo Giraudo, per riferire in ordine «all’attività di indagine espletata sulla cosiddetta Falange Armata ed in particolare sulle rivendicazioni di attentati ed omicidi nel corso degli anni 1992 e 1993»; Francesco Paolo Fulci, già segretario generale del Cesis, per riferire «in ordine alle attività svolte per l’identificazione degli autori delle rivendicazioni della Falange Armata».

 

SISTEMI CRIMINALI

La richiesta di rinvio a giudizio di marzo 3013 fa riferimento, quanto alle analisi sulla Falange Armata, alla cosiddetta indagine “Sistemi criminali”, condotta a Palermo nel 1998 dal pm Roberto Scarpinato che nel 2001 ne richiese (con grande onestà intellettuale) l’archiviazione (Licio Gelli +13).

Lì si possono leggere, con dovizia di maggiori e approfonditi particolari, le dichiarazioni sulla Falange Armata di alcuni pentiti già citati sopra.

 

MALVAGNA

Filippo Malvagna, nipote del boss Giuseppe Pulvirenti detto “’u malpassotu”,

nell’interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava la riunione “strategica” di Enna della fine del 1991, di cui aveva già riferito Leonardo Messina, in questi termini: «Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di “guerra allo Stato” che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere.

…………

A. D.R. Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell’esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall’isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell’incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell’ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l’oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano “saltati” i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l’organizzazione senza le sue tradizionali coperture.

………………

A D.R. Quanto alle ragioni dell’attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d’accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: “Si fa la guerra per poi fare la pace”. Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia.

Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si

era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla “Falange Armata”.

A D.R. Per quanto mi riferì il Malpassotu la decisione di intraprendere una vera e propria guerra allo Stato era stata presa da tutti coloro che avevano partecipato alla riunione nella provincia di Enna. Questa unanimità di vedute si era mantenuta anche dopo le stragi in danno del dr. Falcone e del dr. Borsellino».

 

MAURIZIO AVOLA

Nell’interrogatorio reso il 24 marzo 1995 alla Procura della Repubblica di Caltanissetta, Maurizio Avola dichiarò: «…perché potesse affermarsi il nuovo partito era necessario che si instaurasse un clima di attacco allo Stato. Ad attaccare lo Stato era stata delegata Cosa Nostra già dall’inizio del 1992. …Si trattava in definitiva di una strategia della tensione e del terrore che Cosa Nostra avrebbe dovuto portare avanti colpendo anche obiettivi che non rientravano tra i tradizionali obiettivi della mafia e per i quali, sulle prime, sarebbe sembrato difficile individuare un risultato positivo per Cosa Nostra. Questo risultato positivo sarebbe certamente venuto però in un secondo momento quando con questa strategia il vecchio sistema avrebbe avuto la spallata definitiva perché il popolo esasperato sarebbe stato propenso ad appoggiare gli uomini che sarebbero scesi tempestivamente in campo, sbandierando a parole programmi di rinnovamento e di rigore. Con questi uomini nuovi evidentemente dovevano essere intercorsi già accordi che garantivano per il futuro una legislazione favorev
ole a Cosa Nostra.

Quanto agli obiettivi da colpire, si trattava, come ho detto, di azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra.

Queste azioni secondo una prassi che era in atto già da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata».

Scendendo ancor più nello specifico, Avola, nell’interrogatorio reso alla Procura

di Palermo il 12 settembre 1996, precisò che della nuova strategia politico/eversiva di Cosa Nostra aveva già avuto notizia nel 1990 e che egli aveva saputo anche di un certo interesse verso un’ipotesi di separatismo: «…A.D.R. Ho anche appreso che Cosa Nostra fin dal ‘90 aveva intenzione di eseguire attentati anche fuori della Sicilia celandosi dietro false rivendicazioni con la sigla “Falange Armata».

VALENZA PROBATORIA E RISCONTRI

Da pagina 40 di quella richiesta di archiviazione, nel paragrafo sulla “Valenza probatoria e riscontri” si legge che la circostanza inerente alle modalità di utilizzo della sigla Falange Armata, di cui hanno riferito sia Malvagna che Avola, ha trovato significativi ed incontrovertibili riscontri di carattere obiettivo. In particolare, numerosi attentati inseriti nella strategia stragista (in particolari quelli del ’93) furono rivendicati, a più riprese, dalla sedicente organizzazione. Altri collaboratori (Vincenzo Sinacori, Tullio Cannella, Giovanni Brusca e Salvatore Grigoli) hanno riferito di avere appreso che, in relazione alle stragi del ’93, Cosa Nostra avrebbe fatto uso o doveva usare la “copertura” della falsa rivendicazione con la sigla della “Falange Armata” per depistare le indagini (sul punto si veda  la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Firenze sulle stragi del ’93).

Ora, al termine di questa lunga disamina, credo che tutti voi abbiate capito perché quella lettera (sulla cui attendibilità non è mio compito intervenire), se fosse autentica in tutto o in parte, sarebbe dannatamente inquietante. L’interpretazione è lungi da noi (chiunque si avventurasse in questo momento in letture rischia di prendere abbagli) ma è certo che se si trattasse anche solo di una mossa confusionaria, quella missiva avrebbe quantomeno centrato l’obiettivo di rendere ancor più nebuloso il confine e irrespirabile l’aria nei quali si trovano a operare i quattro pm di Palermo ai quali dovrebbe giungere la solidarietà e il calore di un intero popolo. Quello italiano che crede nella ricerca della verità.

Un'ultima cosa vorrei aggiungere. Sbaglierò (come spesso mi accade) ma ho la sensazione che – vera o falsa che sia la lettera e riconducibile o meno che sia alla Falange Armata – gli ambienti inquinati che rappresentano la sovrastruttura indispensabile delle mafie (che si chiami Cosa nostra o 'ndrangheta) siano in questo momento altamente in allarme. Ho la sensazione, cioè, che quegli ambienti inquinati che in questi decenni hanno pascolato più o meno liberi a braccetto di servitori infedeli dello Stato, massoneria deviata, cosche calabro-sicule, professionisti infedeli, eversione nera politici allevati a vangelo (non certo quello cristiano) e boia-chi-molla, abbiano paura, una paura fottuta, che le Procure di Palermo, Reggio Calabria, Caltanissetta e Catania, stiano riaprendo o abbiano già riaperto (come è avvenuto in alcuni casi) i fascicoli di vecchie e tragiche pagine della storia italiana, rilette alla luce degli elementi riscontrati o in via di riscontro. Ho dunque la sensazione netta che quella cupola che rappresenta la mafia 2.0 a cavallo dello ponte Roma-Reggio-Palermo continui a lanciare messaggi che vanno proprio nella direzione di impedire una rilettura complessiva delle pagine nere della democrazia italiana e, mi spingo a dire, a impedire la lettura di una trattativa tra Stato e mafie (uso il plurale) che non si è mai spenta.

r.galullo@ilsole24ore.com