Cari lettori da tre giorni sto analizzando la “folle” ipotesi investigativa del pm della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che si è messo in testa di scoperchiare quel “sistema criminale”, fatto “anche” di ‘ndrangheta, che governa la Calabria. Un gioco (che gioco non è) che rischia di essere, per lui, mortale.
Lombardo vuole proseguire l’opera – interrotta nel 2001, processualmente non provata ma quanto mai vera, viva e vegeta – di Roberto Scarpinato (si veda il mio articolo di due giorni fa in archivio).
Le principali pedine sullo scacchiere di Lombardo sono i processi Meta e Agathos, oltre a quelli svolti o in corso come Bellu lavuru e Piccolo carro, l’indagine sulla Lega Nord e su Francesco Belsito e la riapertura, inutilmente negata in Procura, dell’omicidio del giudice Nino Scopelliti.
Ciascuno di questi “pezzi” sta arricchendo la trama criminale. Alcune mosse sono state già vincenti. Altre attendono la contromossa. Altre saranno inattese.
La prima mossa è quella più complessa perché coinvolgerà decine e decine di mafiosi reclusi che saranno interrogati: la verità sull’omicidio, il 9 agosto 1991 a Piale, del giudice Antonino Scopelliti, che attende ancora di essere scritta (rimando al post in archivio del 9 agosto 2012).
La seconda è quella che passa dal processo Meta sulla quale cade lieve come piuma l’assist che offre un’indagine della Procura reggina del 2008: Bellu lavuru.
GLI INVISIBILI
In quest’ultimo processo si scopre una cosa incredibile. Solo che incredibile non è. Si tratta, però, di fili delicatissimi da annodare in quella trama criminale che Lombardo sta cercando di ritessere e su cui Scarpinato – mutatis mutandis – si imbattè.
Nel processo Bellu lavuru (si vedano i miei post in archivio del 9, 10, 12 agosto e 15 e 17 settembre) l’ordinanza di custodia cautelare riporta un’intercettazione del 17 ottobre 2007 alle 17.22.48.
Per 21minuti e 47 secondi un indagato parla con sua moglie e, annotano i magistrati, per la prima volta riferisce alla moglie stessa di aver partecipato ad un pranzo nel quale con lui vi erano 5 o 6 persone definite dallo stesso “invisibili”.
Sulla stessa autovettura, due mesi prima, il 12 agosto 2007 alle 11.38.27, lo stesso indagato, parlando per 27 minuti e 54 secondi con il fratello conferma di “far parte di un gruppo di persone sconosciuto ai più, denominato “gli invisibili”, nato solo da un paio di anni, e del quale a Bova con lui ne fanno parte solo 5 persone che sono quelle che realmente contano”.
Quel che conta moltissimo per gli investigatori e i magistrati, è il fatto che l’indagato, per sua stessa ammissione, fa parte di un gruppo di persone che gestisce il potere mafioso denominato gli “invisibili”. Allo stesso tempo afferma di appartenere alla massoneria dove, guarda tu il caso, vengono esaltati i termini visibili ed invisibili per indicarne gli appartenenti (“fratelli tutti visibili ed invisibili che adornate l'Oriente”).
Questa acquisizione apre uno scenario del tutto nuovo nel panorama criminale delle cosche mafiose di Reggio Calabria. Grazie a questa conversazione e altre ancora, la magistratura reggina viene a conoscenza che, per una scelta di autoprotezionismo da “attacchi esterni” (“se no oggi il mondo finiva; se no tutti cantavano”), gli stessi appartenenti alle varie organizzazioni criminali, da un paio di anni (“c'è la visibile e l'invisibile che è nata da un paio di anni“), hanno creato una sorta di struttura parallela occulta i cui aderenti vengono denominati gli “invisibili”.
OMICIDIO FORTUGNO
Lo scenario di quella indagine mette anche un punto fermo sulla riaffermazione in Calabria di questa rete di “invisibili”: l’omicidio, il 16 ottobre 2005 a Locri, del vicepresidente del consiglio regionale calabrese Francesco Fortugno. Come si vede, dopo ogni omicidio eccellente, così come accadde per le stragi mafiose di Cosa nostra, le mafie hanno la necessità assoluta di rinsaldare la cupola, il “sistema criminale” e rendersi “invisibile”.
Salta agli occhi la straordinaria analogia e il parallellelismo che passa con l’indagine siciliana in cui la “supercosa” siciliana e il “comitato ristretto” della ‘ndrangheta che si fa beffa dei santini di Polsi e che abbiamo analizzato nel post di ieri.
ZUMBO
All’esistenza di questa rete di “invisibili” darà inaspettatamente una mano e una conferma (già provata processualmente in parte) l’irrompere, nell’agosto 2010 di tal Giovanni Zumbo, arrestato il 13 luglio 2010 nell’ambito dell’operazione Crimine/Infinito e soggetto assolutamente sconosciuto all’universo mondo ma non alla politica: costui infatti è stato per un tempo consulente nella segreteria del sottosegretario alla Regione Calabria Alberto Sarra, presentatosi con il Grande Sud (ma non eletto) in quest’ultima competizione elettorale. E conosciuto dalla Giustizia: era amministratore giudiziario di beni sequestrati alle cosche.
Costui fu arrestato – in fretta e furia – e su quell’arresto parte della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria sparò fulmini e saette (si vedano i post del 15 e 17 settembre, 5, 7 e 8 ottobre 2010). Alcuni magistrati avrebbero infatti voluto continuare a intercettare le sue attività e i suoi colloqui soprattutto con la famiglia di ‘ndrangheta Pelle di San Luca. Se le microspie e gli apparati radio-televisivi avessero continuato a intercettare e riprendere ancora per un po’ di tempo, altre preziosissime informazioni sarebbero affluite alla Dda ma lo stesso Zumbo, magicamente, aveva capito che aveva ormai le ore contate e dunque per evitare il pericolo di fuga lo hanno preso.
Giovanni Zumbo avrebbe fornito sistematicamente a famiglie di ‘ndrangheta (Ficara e Pelle) notizie su delicatissime indagini della Dda di Reggio Calabria e di quella di Milano in corso nei loro confronti o nei confronti di persone a loro vicine.
Non solo. Zumbo avrebbe dato conto per filo e per segno di iniziative di intercettazioni, riprese, sorveglianze a loro carico. In questo modo, scrivono i magistrati nel decreto di fermo, ha rafforzato il ruolo delle cosche.
PICCOLO CARR
O
Tre giorni fa Zumbo, nell’ambito del processo Piccolo carro è stato condannato a 16 anni e otto mesi di reclusione. Fu lui che durante la visita a Reggio Calabria del Presidente Giorgio Napolitano fece ritrovare, con una telefonata, l’auto carica di armi ed esplosivi. Una farsa, secondo gli inquirenti, che – nei piani di Zumbo e di chi come una pedina lo guidava – avrebbe dovuto rivelarsi utile per accreditarsi quale fonte affidabile presso Procura e magistrati. Una farsa alla quale hanno partecipato due coimputati, Demetrio Domenico Praticò e il capo dell’omonimo clan, Giovanni Ficara. Una farsa tutta da chiarire, come ha ben evidenziato lo stesso pm Gianni Musarò.
I PEGGIU PORCARUSI DEL PIANETA
Il punto è: come può un semplice e ignoto commercialista di Reggio Calabria, peraltro ex amministratore giudiziario di beni sequestrati alle cosche dal ’92 al 2007, co-proprietario con la famiglia di alcune attività commerciali, essere così ben informato e vendersi, eventualmente, per quello che non è? Per conto o con il consenso di chi?
Le parziali spiegazioni si trovano nello stesso decreto quando lui stesso, intercettato, fa capire di far parte dei servizi segreti. Nei confronti di quel mondo si esprime con soavi parole: “…ho fatto parte di… e faccio parte tutt'ora di un sistema che è molto, molto più… vasto di quello che… ma vi dico una cosa e ve la dico in tutta onestà! "Sunnu i peggiu porcarusi du mundu!" (ndr sono i peggiori porci del mondo). Di se stesso dice:…” ed io che mi sento una persona onesta e sono onesto e so di essere onesto… molte volte mi trovo a sentire… a dovere fare… non a fare, perché non lo possono evitare, ma a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!”.
“Io ho l’onestà da fare paura” recita in un’altra intercettazione. Beata innocenza.
A proposito dei servizi di informazione per la sicurezza, Giovanni Ficara parlando con Pelle ribadisce spesso un concetto (“compare, credetemi, io non sapevo di certi pianeti, neanche i cani Signore, a uno gli prende la paura!”) e, in merito alle metodologie utilizzate dai servizi segreti, rincara la dose e aggiunge “Pare che hanno i nostri pensieri!.. Gli dicono dacci… ti do questo… e… Cosa vogliono sapere…inc…”.
I servizi segreti (ma aggiungo io, quelli deviati altrimenti si fa di tutta l'erba un fascio) hanno gli stessi pensieri della ‘ndrangheta.
CURIOSITA’
Vi sottopongo tre curiosità (in una) che mi hanno colpito.
La prima – che avrete potuto leggere nei miei post reperibili in archivio del 7 e dell’8 febbraio – è che, riferendo alla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti sui apporti con il Sismi, il maresciallo Niccolò Moschitta, membro del pool che dava la caccia alle navi dei veleni poi disgregatosi dopo la morte del capitano Natale De Grazia – nel corso delle due audizioni dell’11 marzo e dell’11 maggio 2010 dirà testualmente: «…si è sempre collaborato benissimo, apertamente e senza problemi, tanto che nell’edificio della procura distrettuale di Reggio Calabria avevano approntato per loro anche un piccolo ufficio per esaminare documentazioni nostre ed eventualmente integrarle (…) i servizi segreti, il Sismi, hanno lavorato con noi». Ora, che una sede , diciamo così,“distaccata” del Sismi – se fosse vero – fosse collocata in una Procura è cosa alquanto anomala e non sarebbe male che il nascituro Parlamento, attraverso qualche onorevole, presentasse un’interrogazione al ministro dell’Interno per avere una risposta ufficiale sul punto.
La seconda curiosità: sapete dov era (suppongo anche ora) la sede dell’Aisi (i servizi segreti) a Reggio Calabria? In Via Tommaso Campanella, 38, nello stesso stabile dove abita il magistrato Vincenzo Giuseppe Giglio, condannato in primo grado il 6 febbraio di quest’anno a 4 anni e 7 mesi di carcere nel processo milanese sulla cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta dall’ottava sezione penale del Tribunale di Milano.
E sapete cos altro alberga nello stesso stabile? Alcuni dipartimenti dell’Università Mediterranea, dove insegnava Diritto Tributario l’ex capo del Sismi, Niccolò Pollari. Il suo (ex) vice, invece, Marco Mancini, a Reggio Calabria, è un’istituzione. Fu lui a firmare le tre informative che nel 2005 hanno portato alla scoperta dell’ordigno collocato nei bagni del Comune di Reggio Calabria. Una vicenda – a mio sommesso avviso – ancora tutta da chiarire ma un dato è certo: da quel momento in poi decollerà la carriera di alcuni personaggi.
Mancini incrocerebbe anche Giovanni Zumbo, allorché, interrogato dopo il suo arresto dall’ex capo della Procura di Reggio Calabria, Pignatone Giuseppe, Zumbo affermerà di aver «incontrato l'ex funzionario Mancini che scese a Reggio Calabria, ma dell'argomento preferirei non parlare». Una circostanza – continua a informare purtroppo la sola Calabria la brava collega Alessia Candito su www.corrieredellacalabria.it – confermata nel corso dell’istruttoria del processo Piccolo Carro anche da Corrado D’Antoni, ex responsabile Sismi a Reggio, secondo il quale il rapporto fra i servizi e Zumbo avrebbe goduto dell’avallo di Mancini, con il quale Zumbo si sarebbe effettivamente anche incontrato un'unica volta a Reggio Calabria. Rapporti che invece, stando a quanto affermato dal maresciallo della Gdf Alessio Adorno sarebbero andati oltre: «Zumbo ha avuto più di un incontro con lui qui a Reggio, ma anche a Roma. Più di una volta è andato nella capitale per incontrarlo».
Vero, non vero: e chi lo sa?
TORNIAMI AI “DEVIATI”
Parlava di “pianeti”, Ficara. Se parlava Zumbo “veniva giù mezza Reggio”. E forse – dico io – qualcosa in più tenendo soprattutto conto che quella di Zumbo è comunque una figura di risulta, una delle ultime ruote del carro di quel sistema di “invisibili” che sta traghettando da anni l’Italia verso la “calabresizzazione”.
Uno Zumbo che – come riporta la puntuale cronaca di Alessia Candito su www.corrieredellacalabria.it, dice, ancora un mese fa, di se stesso: «Sono un organo dello Stato». Lo dice nel corso del processo Piccolo carro, dopo essere già stato condannato come professionista al soldo dei clan nel procedimento Archi-Astrea.
La cosa straordinaria è che i servizi dicono che Zumbo si sarebbe limitato a una collaborazione della minchia (il ritrovamento di armi ), mentre Zumbo stesso (che non capisco cosa ci guadagnerebbe a toccare tasti così esplosivi ma forse i suoi sono messaggi “cifrati”) dice addirittura che i servizi sarebbero tornati a "corteggiarlo" dopo l'attentato alla Procura generale, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010. La domanda è: quali servizi?
Uno potrebbe dire: ma ‘sto Zumbo spara balle. Certo. Ed infatti, il 14 febbraio di quest’anno, il pentito Nino Fiume, amico di scorribande “anche” di Peppe De Stefano, nello stesso procedimento Piccolo carro dichiara che: «Giovanni Zumbo lo conosco da quando eravamo ragazzini. Conosceva anche i fratelli De Stefano, soprattutto Carmine, da sempre».
E’ SEMPRE ‘NDRANGHETA
E in quell’occasione dice anche – di striscio – che una trama fitta di insospettabili, di «persone riservate» – cosi le definiva Giuseppe De Stefano – tra cui “anche” Zumbo, avrebbe garantito per anni appoggio e protezione al clan De Stefano.
«È sempre 'ndrangheta – continuerà a dire Fiume – ma è come fossero cosa diversa della 'ndrangheta. Le affiliazioni fatte fra le loro amicizie da Carmine e Giuseppe erano a livelli diversi ma erano sempre 'ndrangheta. Nessuno era stato battezzato, ma erano persone che si erano mostrate disponibili».
Nessuno era stato battezzato!? Chissà come se ne avrà a male don Mico Opeddisano, avventatamente definito il capo dei capi, il boss della Piana che tremare il mondo fa, quando invece era ed è (secondo quanto emerso finora dalle accuse e dalla condanna) un ingranaggio di quella ruota mortale che è il più vasto “sistema criminale” calabrese.
A domani.
3- to be continued (le precedenti puntate sono state pubblicate il 4 e 5 marzo).