In ogni guerra, conoscere le dimensioni del nemico, la sua potenzialità di danno, è un elemento essenziale per definire strategie vincenti. Questo vale anche per la guerra alla criminalità organizzata di cui resta spesso oscura la potenza economica, che, pure, fa della mafia uno dei grandi attori dei mercati, anzi, talvolta un vero e proprio mercato. Difficile pensare – prima dell’audizione di ieri in Commissione parlamentare antimafia – che il vice direttore generale della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, potesse usare toni così netti e scanditi per presentare la relazione sulle dimensioni e sui costi dell’economia criminale in tempo di crisi. Tanto basta, però, per dare l’idea della preoccupazione della Banca d’Italia per fenomeni che dietro hanno un nemico di «dimensioni imponenti, articolato, dotato di grandi capacità di adattamento e di ridefinizione delle alleanze». In Commissione antimafia Bankitalia ha pubblicizzato uno studio 2012 – svolto per il quadriennio 2005/2008 in collaborazione con le Università Federico II di Napoli e di Torino – che stima distintamente la componente di economia sommersa collegata ad attività classificabili come legali ma esercitate irregolarmente (per via dell’evasione fiscale, tributaria o contributiva) dalla componente criminale. Emerge un valore medio del sommerso fiscale e criminale pari, rispettivamente, al 16,5% e al 10,9% del Pil.
Mentre però le quote sul sommerso sono univoche, quelle dell’economia criminale sono ampiamente sottostimate perché considerano solo le transazioni che prevedono un accordo tra venditore e acquirente (ad esempio traffico degli stupefacenti e sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione) ma vengono esclusi tutti i reati violenti, come i furti e le rapine ma – soprattutto – le estorsioni e l’usura che sono un polmone finanziario per le mafie.
Le province del Centro-Nord mostrano in media un’incidenza maggiore – sia del sommerso da evasione che di quello associato ad attività illegali – rispetto alle province del Sud. Nella relazione di Tarantola si legge che il risultato «…probabilmente si giustifica con il fatto che l’utilizzo di contante per transazioni illegali riguarda specificamente attività criminali – traffico di stupefacenti e prostituzione – che, pur avendo centri decisionali localizzati in prevalenza al Sud, per effetto della mobilità delle risorse della criminalità organizzata e della concentrazione del "mercato al dettaglio" per questi beni e servizi nelle aree più ricche del Paese, trovano una diffusione più intensa nelle province del Centro-Nord».
Ci sono poi i costi diretti e indiretti della criminalità per le imprese, che valgono il 2,6% del Pil nel Sud e l’1% dello stesso Prodotto interno lordo nel Centro-Nord. Nell’analisi, i costi vengono calcolati in termini di "spese di anticipazione" (a esempio assicurazioni e sicurezza), "spese di conseguenza" (ad esempio pizzo, refurtiva, i mancati guadagni derivanti dall’effettivo verificarsi del delitto) e infine "spese di reazione" (il costo per indagini ed esecuzioni delle pene). L’incidenza dei costi così misurati risulta maggiore nel Mezzogiorno (2,6 per cento del Pil, in media) che nel Centro-Nord (1%).
Le diverse categorie di costo risultano distribuite in modo eterogeneo: il Mezzogiorno subisce il maggior aggravio per i "costi di conseguenza" (49,3% della relativa spesa nazionale); per contro, nel Centro Nord prevalgono le "spese di anticipazione" (73,1%) e quelle di reazione (63,4%).
Tarantola ha fornito infine una stima macro-economica dell’attività di riciclaggio di denaro nel periodo 1981/2001, pari a circa il 12% del Pil. Anche in questo caso il dato è sottostimato: l’attività di riciclaggio ha infatti natura anticiclica e quindi aumenta nei periodi di crisi come quello che l’Italia sta attraversando.