Oggi parto dal comunicato stampa che i Ros dei Carabinieri di Reggio Calabria hanno fatto arrivare sulla mail dei giornalisti ieri, alle ore 7.32.
Il comunicato – che fa riferimento all’Operazione Reggio Nord coordinata dalla Dda di Reggio Calabria con la quale sono stati indagati 14 appartenenti alle cosche Condello, Tegano, Libri, Garonfolo e Zito-Bertuca per associazione di tipo mafioso e intestazione fittizia di beni – recita testualmente: “…L’investigazione ha documentato ancora una volta l’unitarietà della ‘ndrangheta e dimostrato l’operatività criminale del latitante Domenico Condello…”.
UNITARIETA’ E DUBBI
“Ancora una volta…unitarietà della ndrangheta…”: questo è quel che recita il comunicato dei Ros.
Mi domando: ma a quale unitarietà della ‘ndrangheta bisogna credere?
A quella dell’indagine Il Crimine scivolata sull’asse Milano-Reggio Calabria e che ha portato all’arresto del fruttivendolo con l’apecar scassata Mico Oppedisano o a quella dell’indagine Meta che cerca di inchiodare al muro le cosche che comandano Reggio e che hanno un filo diretto con la politica, la massoneria e la classe dirigente economica e finanziaria di questa martoriata terra?
Lo so, i nomenklatori diranno: l’una non esclude l’altra. Già ma qual è la ‘ndrangheta che condiziona la vita e ne decide le sorti?
LA MAFIA PECORECCIA E QUELLA RAFFINATISSIMA
La mafia alla lunga mortale per una società non è lupara e coppola, santini bruciati e riti di affiliazione ma quella “invisibile”, fatta – da sempre – di colletti inamidati e bastoni da passeggio (a fine Ottocento) e giacca, cravatta e I-Pad (ai giorni nostri). Condita, sempre, da un livello di istruzione superiore, una fiorente professione o attività, un sapiente attivismo politico-amministrativo, un discreto governo della finanza e una discrezionale, ma quasi sempre coltivata, adesione alla fratellanza dei muratori.
Questa è la mafia. Il resto – il fruttivendolo con l’Apecar o il boss di Cosa nostra con formaggio e cicoria – è il corollario della mafia. E’ la longa manus cruda, crudele e sapientemente ignorante di quella colta, raffinatissima ed esperta che tolse la vita al giudice Giovanni Falcone e al magistrato Bruno Caccia, solo per fare due nomi, al Sud e al Nord, tra i tanti.
Fa comodo rappresentare la mafia pecoreccia come la vera mafia. Avete mai letto, ad esempio, di Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, ucciso da Cosa Nostra il 1° febbraio 1983 a Trabia (Palermo) da quella miscela esplosiva mafia-politica che dominerà dall’Unità d’Italia in poi la nostra vita? O magari avete mai sentito parlare di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due moderati studiosi toscani che per primi nel 1876 avevano già capito tutto della mafia siciliana?
Magari no. Pero avrete quasi sicuramente visto in tv Il capo dei capi sulla vita di Totò Riina. Ecco: la mafia siciliana deve essere questa e non quella di Michele Navarra, figlio di una famiglia benestante (il padre era membro del “Circolo dei nobili”), nato a Corleone nel 1905, medico chirurgo che divenne boss di Cosa nostra dopo la II guerra mondiale.
Il capo di Cosa nostra era un medico, capite? E siccome l’intelligenza dello Stato – già all’epoca – era elevata, dove fu spedito in soggiorno obbligato? Ma a Gioiosa Ionica (Reggio Calabria)! Navarra fu trucidato il 2 agosto 1958.
E oggi pensate davvero che il capo di Cosa nostra sia Matteo Messina Denaro e non un elite di professionisti e politici che al boss trapanese e alle cosche siciliane tutte danno vita e alimento in un circuito perverso?
E davvero pensate che l’autista ultraottantenne dell’Apecar sia il capo della ‘ndrangheta? Se lo pensate smettete di leggermi.
E dunque – nel caso della mafia calabrese – qual è il vertice affaristico-criminale a cui fare davvero riferimento?
L’UNITARIETA’ DEL CRIMINE….
Oggi, 7 ottobre, dovrebbe svolgersi la terza udienza del processo Il Crimine. Si tratta del rito abbreviato che ha portato alla sbarra 118 imputati.
Le prime due udienze sono già state svolte. Nella prima, il 27 settembre, il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Michele Prestipino, ha spiegato “l'esistenza della 'ndrangheta come organizzazione di tipo mafioso unitaria, insediata sul territorio della provincia di Reggio; l'esistenza di un organo di vertice che ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti; l'esistenza di molteplici proiezioni di cui la più importante è "la Lombardia", secondo il modello della "colonizzazione", e i rapporti tra la casa madre e tali proiezioni esterne».
Prestipino, richiama addirittura alla memoria Alberto Sabatino per dimostrare l’unitarietà della ‘ndrangheta da tempo. Sabatino era il commissario di Reggio che il 26 ottobre 1969 a Serro Juncari impacchettò, su ordine del questore Emilio Santillo, 72 persone che si erano radunate in Aspromonte per parlare di droga, contrabbando e appalti oltre che dell’adesione alla destra eversiva.
Era la ‘ndrangheta pecoreccia e violenta, quella che infatti, dopo non si rigenerò più…Al punto che 41 anni dopo è di nuovo alla sbarra più forte di pria e, credetemi, tra 41 anni sarà ancora più forte. Solo che avrà sempre più spostato il baricentro da Reggio a Milano, da Crotone a Monaco, da Locri a Parigi, da Limbadi a Londra o magari a New York.
Il 28 settembre, nella seconda udienza, il pm Maria Luisa Miranda, rafforzerà il concetto dicendo che “la ‘ndrangheta esiste, è una e unitaria”.
Da queste prime udienze abbiamo tre verità. Una assoluta: la ‘ndrangheta esiste (evviva Dio). E due (per quel che mi riguarda) relative: è una. E’ unitaria.
…LO STESSO GIORNO….
Il 28 settembre, lo stesso giorno in cui la dottoressa Miranda rincarerà la dose nell’aula bunker di Viale Calabria, a pochi metri di distanza, sempre presso il Tribunale di Reggio, accade qualcosa di straordinario. Si dà il via al processo Meta che, tra rito abbreviato e rito ordinario, vede alla sbarra tipini-fini del calibro di Condello (Demetrio, Francesco, Domenico, Pasquale il supremo), Giuseppe De Stefano, Giovanni Tegano, Pasquale Libri, i Barbieri e via di questo passo. Il gotha che governa d
avvero. Punto. Quello che siede appena un gradino sotto la “vera” cupola unitaria della ‘ndrangheta. Quella cupola dove oggi la politica fa la parte del leone.
Quello stesso giorno, il 28 settembre, al debutto del processo Meta, accade qualcosa di imprevedibile: la richiesta di ricusazione della mite e preparata presidente Silvana Grasso che si sarebbe già pronunciata nel passato su materie che coinvolgono alcuni tra i 24 imputati. E allora! Embe! Ma la difesa ha chiesto la ricusazione e la palla è ora nelle mani della Corte d’appello di Reggio che dovrà pronunciarsi. Spero negativamente, altrimenti sarebbe un suicidio.
…DUE GIORNI DOPO…
Due giorni dopo, il 30 settembre, il pm Giuseppe Lombardo – quello, per intenderci che il gotha politico-affaristico della ‘ndrangheta vuole fare fuori e quello, per intenderci di quale pasta sia fatto l’Uomo, che ieri ha messo ancora nel sacco alcuni appartenenti alle cosche Condello, Tegano, Libri, Garonfolo e Zito-Bertuca – ha cominciato la sua requisitoria nel processo Meta.
Il collega della Gazzetta del Sud, Paolo Toscano, è lì a seguire gli eventi. Asciutta la sua cronaca. “ Tutto che quello che c'è da dire – ha spiegato Lombardo – è già negli atti. Non ho argomenti ulteriori da rassegnare in questa sede che mi servano a dimostrare che la 'ndrangheta che governa la città di Reggio è dotata di un organismo di vertice, composto dai soggetti tratti a giudizio e da quelli che degli stessi si servono o di cui sono strumento, che decide le sorti di ognuno di noi, che condiziona il destino di migliaia di persone che si sentono libere solo perchè hanno voglia di illudersi di esserlo o ritengono che quello sia l'unico modo di trovare la forza di andare avanti».
DELLE DUE L’UNA
E siamo al punto. Lombardo parla di “organismo di vertice composto dai soggetti tratti in giudizio…che decide le sorti di ciascuno di noi…che decide le sorti di ognuno di noi…”.
Al di là della drammatica conferma che in Calabria la democrazia non esiste (che vi piaccia o meno amici calabresi, continuate a fuggire da quella terra maledetta e senza un briciolo di speranza, se potete), Lombardo parla di “organismo di vertice composto dai soggetti tratti nel suo giudizio”, vale a dire il gotha mafioso che è alla sua sbarra: Libri, De Stefano, Condello e loro devastanti ramificazioni nella politica, nella massoneria, nell’imprenditoria, nella finanza.
A questo punto della novella, chiunque si dovrebbe porre una domanda: ma se tanto l’inchiesta Il Crimine quanto Meta processano, seppur con sfumature che sfumature non sono, la “’ndrangheta una e unitaria” e l’“organismo di vertice composto dalle storiche famiglie Libri, De Stefano e Condello” quale delle due cupole davvero governa la vita dei calabresi e influenza, credetemi, una nazione intera?
E già perché nell’inchiesta Il Crimine non c'è traccia profonda delle cosche Libri, De Stefano e Condello, che anche un parvenue della storia delle mafie sa essere da decenni l’essenza stessa della ‘ndrangheta reggina, ma c’è abbondante traccia delle cosche "pecoreccie", militari e violente: Bellocco, Aquino, Mazzaferro, Alvaro, Ursino, Bellocco e via di questo passo.
E viceversa nell’inchiesta Meta non c’è traccia del "venditore di meloni" (permettete l'ironia, è solo ironia) di Rosarno, don Mico Oppedisano e dei suoi compagni di "ortofrutta", la cui cosca era temibile al punto da farla giocare il 2 settembre 2009 con le cariche e i santini alla Festa della Montagna di Polsi. Al contrario, in quell’indagine, sfilano appunto le famiglie “invisibili” che ai santini e ai rosari preferiscono il rapporto con il potere politico al chiuso di una loggia, da dove spartiscono affari e poltrone, vita e morte e permettono ai sudditi di giocare con i santini e le verdure.
Sia ben chiaro che vanno combattute ambo le anime della ‘ndrangheta: quella pecoreccia tutta ‘nduja e melanzane e quella “raffinatissima”, fatta di politica, giunte, logge, Istituzioni, finanza e servizi deviati.
Detto questo, però, è necessario capire che se non si recide il cordone ombelicale tra le mafie (si chiamino Cosa nostra o Stidda, ‘ndrangheta o camorra, sistema garganico o Sacra Corona salentina) e la cupola politica (intesa come cabina di regia dove siedono finanza, impresa, amministratori, pezzi deviati dello Stato) non cambierà nulla. Anzi, si dissolverà pian piano il Sud. Si continuerà a parlare di vittorie quando a cadere nelle maglie della Giustizia saranno venditori di meloni e divoratori di cicoria, dimenticando che qualcuno quella frutta e quella verdura continuerà ad innaffiarla per permetterle di sopravvivere e salvare così il vero volto della società e dell’economia criminale.
p.s. Invito tutti ad ascoltare la mia trasmissione su Radio 24: “Sotto tiro – Storie di mafia e antimafia”. Ogni giorno dal lunedì al venerdì alle 6.08 circa. Potete anche scaricare le puntate su www.radio24.it. Attendo anche segnalazioni e storie.
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