Il cerchio si stringe intorno a nuovi e vecchi personaggi legati alla Banda della Magliana. L’obiettivo è farli parlare e scoprire dove è sepolta Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa a Roma il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni.
Ad ammetterlo è il Procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, Giancarlo Capaldo, che sta mettendo al muro quel che resta di quella Banda che negli anni Ottanta seminò il terrore nella Capitale e che, come ricorda chi la combattè per 20 anni, il pm Lucia Lotti volata poi al comando della Procura di Gela, “non esiste più ma ha insegnato un metodo che si trasmette ancora alla criminalità romana”.
Il punto di partenza è, dunque, Emanuela Orlandi. “Non ho dubbi che Emanuela sia morta – ha detto in un’intervista che mi ha rilasciato e che è stata pubblicata sul Sole-24 Ore Roma del 27 luglio – anche se mi piacerebbe credere il contrario. Orlandi è una famiglia unita e se Emanuela fosse viva sarebbe entrata in contatto con i familiari. Non oso comunque pensare in che condizioni psicofisiche sarebbe oggi se fosse trovata in vita”.
Perché rivivere proprio ora un pezzo di archeologia giudiziaria? Capaldo fa capire che il ritrovamento del cadavere sarebbe il punto di una ripartenza per più complesse indagini. “Quelli della Banda devono raccontare quel che sanno. Vogliamo conoscere la fine di Emanuela, sapere perché è stata uccisa ma soprattutto conoscere il contesto in cui è stata uccisa”, mi spiegato nel suo ufficio a Piazzale Clodio prima di essere travolto dalle vicende successive alla cena di fine dicembre 2010 con il ministro Giulio Tremonti e con l’indagato, suo braccio destro, Paolo Milanese, che a mio giudizio sono state orchestrate splendidamente per incastrare e delegittimare un magistrato che, al contrario, è serio, preparatissimo e rigoroso.
Il contesto, appunto. A quasi 30 anni di distanza restano misteriose le cause di quella scomparsa ma due punti ora sembrano fermi. “Non credo alla mano dei servizi segreti italiani – ha affermato Capaldo – mentre penso invece che gli ex della Banda della Magliana sappiano molto se non tutto”.
E così la decisione – pianificata nel tempo e lontano dai riflettori – di stringere all’angolo gli ex della Banda. “Bisogna togliergli l’acqua in cui nuotano – ha spiega il procuratore aggiunto – ma per farlo non basta deciderlo. In questi anni, silenziosamente, abbiamo posto le premesse per arrivarci”.
Una sensazione e una certezza.
Prima la certezza: la Procura punta a sottrarre le ricchezze accumulate con le attività criminali, a prosciugare il patrimonio illecito per costringere ciò che resta di quella Banda a uscire allo scoperto.
La sensazione è che questa strategia della Procura funzioni. La morte di Flavio Simmi, figlio di Roberto Simmi, coinvolto nel ’93 nell’operazione Colosseo contro la Banda, potrebbe rientrare in un tragico scacchiere di violenze, avvertimenti, ricatti e morti messo nel conto dai magistrati. Non è stato il primo episodio di tensioni e fibrillazioni interne alla Banda: la Procura gli altri li tiene per sé ma quel che è certo è cha la strategia dell’implosione prosegue.
Mentre i media si sono concentrati sul plateale omicidio di Simmi, la Procura ha continuato infatti a concentrarsi sugli sviluppi di tre anelli, centrati uno dopo l’altro. Il primo è stato l’arresto di Manlio Vitale, detto “er gnappa”, preso il 2 ottobre 2010 mentre tentava il colpo a una banca di Caserta. Scarcerato il 2 aprile 2011, era fidato collaboratore dell’ex boss Maurizio Abbatino.
Il secondo anello è stato l’arresto, il 6 luglio, di Enrico Nicoletti, considerato uno dei boss e il cassiere della Banda. Su Nicoletti, 74 anni, pende l’accusa di associazione a delinquere finalizzata "alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione". Si tratta, si badi bene, dell’ultimo atto dell’operazione "Il gioco è fatto", per la quale la Squadra Mobile di Roma aveva già eseguito ad ottobre 2010 una prima tranche di misure cautelari e per la quale a inizio luglio aveva sequestrato beni per 2,5 milioni.
L’ultimo anello di questa strategia di accerchiamento che sta facendo implodere i pezzi ancora “vivi” della Banda è stato, il 13 luglio, l’arresto di Giuseppe De Tomasi, detto "Sergione". “Siamo convinti – ha affermato Capaldo – che sia stato lui, il 28 giugno ‘83, a telefonare alla famiglia di Emanuela”. Le accuse sono di usura, estorsione, riciclaggio, abusiva intermediazione creditizia e con “Sergione” sono stati arrestati la moglie Anna Maria Rossi, la figlia Arianna, il figlio Carlo Alberto, la consuocera, il genero, oltre ad autisti, guardaspalle e collaboratori.
Il cerchio si stringe, i patrimoni vengono prosciugati e la Procura, anche ad agosto, continuerà a piazzare le tessere mancanti al puzzle-Orlandi. In attesa di far ripartire, da quel cadavere, nuove indagini su un pezzo di storia sottratto alla democrazia italiana.
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