Nelle Alpi Apuane – come ti insegnano fin dalle scuole elementari – è presente la più alta concentrazione di cave di pietre ornamentali del mondo. Tra i soli Comuni di Massa e Carrara si trovano 30 siti di estrazione. Fino al 1995 le cave hanno costituito un caso a parte nella normativa mineraria nazionale in quanto la materia era ancora regolamentata dalle leggi Estensi del 1751 in base alle quali i canoni di concessione venivano calcolati non sulla ricchezza mineraria del sottosuolo ma sul reddito agrario della concessione, risultando, quindi, irrisori rispetto al valore reale dell’area.
In seguito alla legge regionale della Toscana del 28 febbraio 1995, le cave di marmo rientrano nell’ordinamento regionale ed i canoni pagati dovrebbero risultare in proporzione (circa il 10%) al valore di mercato.
La gestione dei processi estrattivi e le conseguenze ambientali diventano sempre più vistose vista la dimensione industriale che ha assunto l’attività. Le Alpi Apuane rappresentano un caso emblematico, visto che il più grande comprensorio estrattivo di ornamentali del mondo deve convivere con il principale Parco naturale della Regione Toscana.
Le circa 200 cave poste nell’area ai limiti del Parco sottopongono il territorio a un prelievo giornaliero enorme di materiale e determinano effetti impressionanti, principalmente per l'inquinamento delle falde acquifere ed il traffico di mezzi pesanti.
Tra le criticità più importanti risulta quella dei sempre più frequenti fanghi di cava che seguono alle piogge. “Le cave infatti – denuncia Legambiente nel Rapporto 2010 anche se le imprese respingono con sdegno le accuse – smaltiscono abusivamente le terre, anziché portare in discarica, ed a queste si aggiungono le polveri ed i residui depositati ai lati delle strade transitate dai camion. Sorprende, in negativo, quello che si è realizzato proprio per evitare questo dannoso fenomeno: una canalina in cemento finalizzata a convogliare le acque nella vasca di sedimentazione, che in caso di forte pioggia viene aggirata sortendo l’effetto opposto e recapitando le acque sulla strada comunale. Sarebbe quindi necessario almeno rimuovere i fanghi presenti e sedimentati lungo i bordi delle strade, ma soprattutto intervenire nel sistema di convoglio delle acque piovane in modo da impedire questo fenomeno impattante per la popolazione carrarese”.
LE COLLINE A LIVORNO
In Toscana ci sono 403 cave in funzione e delle oltre 1.000 abbandonate.
Continua ad essere uno dei casi più clamorosi, per la devastazione paesaggistica ed ambientale che ne deriva – scrive Legambiente nel Rapporto – quello delle cave sulle colline di Campiglia Marittima e di San Vincenzo, in provincia di Livorno, con 5 cave presenti. L’area interessata ricade all’interno di un sito di interesse comunitario (Monte Calvi di Campiglia) e di un’area naturale protetta istituita proprio dal Comune di Campiglia Marittima per la particolare importanza naturalistica del territorio. Ad aggravare il contesto è la presenza, messa a rischio, del Parco Archeo-minerario di San Silvestro e della Rocca medievale, entrambi siti culturali di notevole importanza ormai circondati dalle cave. La prima denuncia per questa condizione decisamente critica era arrivata già nel 2007 da parte dell’archeologo Riccardo Francovich che disse: «La cava di Monte Calvi di Campiglia Marittima va chiusa, l´attività estrattiva non è più compatibile con la fruizione del Parco archeominerario di San Silvestro».
Si tratta di una battaglia aperta tra ambientalisti e fautori del Parco contro i piani di cava di Monte Calvi dell’amministrazione comunale, che prevedono che l´attività estrattiva del calcare per le acciaierie di Piombino prosegua fino al 2018.
La cava è contigua al perimetro del Parco, due attività giudicate incompatibili anche per le mine fatte brillare che – affermava ancora Riccardo Francovich – «hanno provocato lesioni nell´antica Rocca di San Silvestro e, con la caduta dei sassi, messo a repentaglio il passaggio dei visitatori lungo di itinerari del parco archeologico e minerario».
L’aspetto più assurdo, secondo Legambiente, è che la cava inizialmente sfruttata solo per le necessità all’interno del ciclo siderurgico delle fabbriche di Piombino, è cresciuta fino a oltre 1 milione di tonnellate di materiale all’anno dopo la decisione nel 1998 di liberalizzare la vendita del calcare da parte del Comune.
CAPITALE SOTTO PRESSIONE
E’ impressionante l’immagine per chi oggi percorre le strade ed il Grande Raccordo Anulare, sta scomparendo un territorio di colline letteralmente divorato da un attività estrattiva vorace. Come segnalato nel 2008 dal dossier Legambiente “Il punto sulle cave in Italia”, nella zona tra Ponte Galeria e Malagrotta, nelle immediate vicinanze di Roma, l’estrazione di sabbia e ghiaia sta facendo diventare pianeggiante un territorio originariamente caratterizzato dalla presenza di dolci colline.
Non a caso nel Comune di Roma risultano attive oltre 30 cave di cui buona parte concentrata in quest’area che presenta un numero elevatissimo di aziende e di concessioni ma di cui nessuno sembra rendersi conto del devastante effetto complessivo che si sta generando.”Questi enormi sbancamenti di materiali per usi edili come la sabbia e la ghiaia – denuncia il rapporto di Legambiente dato alle stampe a giungo e di cui da giorni sto scrivendo – appaiono quanto mai assurdi in una città come Roma che se organizzasse il riciclo degli inerti potrebbe tranquillamente ridurre il prelievo da cava, magari innescando anche un serio processo di rinnovamento del parco edilizio esistente, puntando quindi sui rifiuti da costruzione e demolizione”.
Un’impostazione e un’attenzione al ciclo dei materiali che dovrebbe coinvolgere gli stessi cantieri in corso della linea B1 e C della metropolitana, perché la grande quantità di materiali estratti potrebbe rappresentare una opportunità, se correttamente programmata, di riutilizzo per altri usi dei materiali prodotti o di recupero di cave dismesse.
Il BASALTO DI ANGUILLARA SABAZIA
Ad Anguillara Sabazia, comune che si affaccia sul Lago di Bracciano a nord di Roma, continua lo sfruttamento delle cave di basalto. L’attività estrattiva di basalto nel territorio di Anguillara, denuncia Legambiente, rischia di determinare conseguenze per la salute per migliaia di cittadini esposti alle polveri oltre a compromettere anche la stabilità delle abitazioni. Nel 2009 è stata data la concessione per l’apertura di una nuova cava in località Quarticillo, per un’estensione di oltre 270 mila metri quadrati, mentre altre tre cave (anch’esse di dimensioni importanti e per un totale di 500 mila metri quadrati di superficie interessata) hanno già concluso l’iter necessario per l’apertura. Oltre all’impatto derivato dalle attività estrattive, polveri ed inquinamento acustico determinato dalle esplosioni, è sempre più allarmante l’intensità del traffico pesante per il trasporto del materiale cavato. “Anche dal punto di vista economico il caso di Anguillara pone se
ri dubbi sulla gestione del territorio – conclude Legambiente – visto il grande valore commerciale di pietre come il basalto per il quale le aziende autorizzate all’estrazione versano solamente 2 euro al metro cubo nelle casse pubbliche”.
LA RIAPERTURA DELLA CAVA DI GUALDO TADINO
Anche in una Regione poco estesa come l’Umbria la presenza di numerose cave, in questo caso 103 attive e 77 tra dismesse ed abbandonate, genera criticità notevoli.
Come in molte aree d’Italia il problema ha interessato e coinvolto un numero crescente di cittadini che si sono uniti formando veri e propri comitati. E’ il caso del Comitato No Cave di Gualdo Tadino (Perugia), dove sono al momento attive sette cave, nato contro la variante al Piano regolatore del Comune che prevede la riapertura di alcune cave di montagna dismesse (in località Vaccara), e che ha visto l’apporto di Legambiente Umbria che denuncia: “In questo caso quello previsto non può essere considerato un intervento di ripristino o risanamento ambientale, bensì una vera e propria riapertura dei siti di cava, tra l’altro rappresentando una pratica non ammessa dalla normativa regionale”.
La vertenza del comitato, culminata nel febbraio del 2010 con la presentazione del ricorso al Tar e della richiesta di sospensiva, ha messo in evidenza come, se questo progetto andrà in porto, potranno essere estratti da un unico sito 2.700.000 metri cubi di materiale nei 10 anni di attività programmati.
In un territorio montano, già ampiamente sfruttato da attività estrattive e che si trova in prossimità di sorgenti e punti di captazione di acqua ad uso civile di interesse regionale, come il pozzo Vaccara ed il torrente del Rio Vaccara, e nelle vicinanza del sito archeologico di Colli dei Mori, il riavvio delle attività estrattive è senz’altro da considerare non una ma mille volte. Tra gli altri aspetti, denuncia ancora Legambiente nel Rapporto, la riapertura di queste aree non porterebbe benefici economici al territorio vista l’esiguità dei canoni di concessione della Regione Umbria, tra gli 0,37 e gli 0,52 euro a metro cubo a seconda del materiale estratto, mentre dal punto di vista ambientale i danni sarebbero notevoli, soprattutto se si considera che il ripristino delle aree, obbligatorio da parte del proponente, troppo spesso non viene rispettato.
6 – the end (le precedenti puntate sono state pubblicate il 22, 25, 26, 27 e 28 luglio)
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