Ricordo che da liceale – quando univo la passione per la politica all’amore per la mia città, Roma – facevo un sogno ricorrente. Se mai dovessi diventare parlamentare, deliravo, la mia prima proposta di legge sarà composta di un solo articolo che più o meno suonava così: “A far data da oggi inizia il progressivo spostamento da Roma dei ministeri che sarà completato entro X anni. Roma resta la capitale politica d’Italia mentre quella amministrativa viene decentrata”.
E se anche volessero spostare la capitale politica, aggiungo oggi, machissenefrega! Facciamo Rovigo o Pordenone oppure, che so, Aosta o Mantova. Sarei il primo a firmare. Roma non ha bisogno di un timbro. E’ città eterna.
Erano gli anni in cui studiavamo e studiavo il patriota Carlo Cattaneo ma erano anche gli anni in cui cominciavo a girare per l’Italia e ricordo, correva il 1982, che in una gita a Vicenza rimasi colpito da un manifesto della Liga veneta, folcloristica compagine politica locale che, poco dopo, sarà travolta e cancellata da una ben più devastante coalizione di cervelli, la Lega Nord.
Ebbene quel manifesto diceva “Fora da Roma”. Ce l’ho impresso nella memoria perché non solo venivo offeso come romano da una compagine di burini il cui viaggio più lungo sarà stato un’avventura a Treviso o a Padova e il cui ultimo libro letto sarà stato il sussidiario delle elementari o al massimo il bignamino alle medie, ma perché pensavo, penso e penserò sempre che il declino della mia adorata città e dell’intera Patria sia iniziato proprio con la decisione di accentrare a Roma tanto il potere politico quanto il potere burocratico.
Una scelta devastante per Roma: politica e burocrazia avviluppate nella città eterna, che oltretutto conta e sconta il potere religioso.
Una miscela che a me e a tanti – giovani liceali affascinati dalla lungimiranza di Cattaneo e dalle soluzioni adottate ad esempio in Olanda, con la sua separazione della vita politica e amministrativa in due capitali, Amsterdam e l’Aja – sembrava sul punto di esplodere.
Esplodere ai danni di Roma – additata a Nord e a Sud da sempre come capitale corrotta e amorale – e ai danni dell’Italia, in cui il becero settentrionalismo affarista unito al rivoltante meridionalismo parassitario, stava dando ossigeno a luminari della politica secessionista come Sua Canottiera Umberto Bossi o Sua Cravatta Francesco Speroni.
Era intollerabile per me e per migliaia di studenti romani questa deriva secessionista e antiromana. Intollerabile alla luce del fatto che eravamo le prime vittime della politica parolaia e del fancazzismo ministeriale, fonte di mediazione partitica, origine di speculazione burocratica e punto di arrivo del peggiore clientelismo affaristico. Ma con noi entravano in asfissia – senza accorgersene – gli italiani tutti.
Intollerabile perché eravamo (ora non più) la città della tolleranza e dell’accoglienza che veniva cristallizzata dalla lettura quotidiana dell’appello nelle classi romane di ogni ordine e grado.
Nella mia, al liceo, l’appello si apriva con Annetta (padre calabrese e madre umbra) e si chiudeva con Sleiter (padre belga e madre romana). In mezzo decine di cognomi che testimoniavano la provenienza familiare da ogni parte d’Italia (ricordo ad esempio Arnaboldi dalla Lombardia, Zazza dalla Campania, Fratoni dalle Marche, ma nelle elementari avevo, che so, Pascolat dal Friuli e alle medie Cotzia dalla Sardegna). Quelle erano la tolleranza e l’accoglienza scritta su carta e animata dai cuori e tutti – indipendentemente dalle origini – ci sentivamo fieri di appartenere alla culla della civiltà. Noi, noi tutti, eravamo fieri di essere romani e italiani. Punto. Nessuno di noi viveva le origini come una diversità ma come un gioioso arricchimento.
Molti di noi in quegli anni capirono che era arrivato il punto di svolta: la politica secessionistica (in realtà, badate bene, mai rinnegata da Sua Canottiera e dai suoi scodinzolanti e troteggianti accoliti) obbligava a cambiare rotta. Molti a Roma – soprattutto tra i giovani anche impegnati in politica – si auguravano il progressivo allontanamento dalla città eterna dei cancri ministeriali e dalle sue mafie allevate come cavie da laboratorio in quelle stanze che ospitavano sindacalismo marcio, politica corrotta e affarismo senza scrupoli.
LA PROPOSTA DEL DECENTRAMENTO
Per questi motivi pensavo che l’idea – l’unica ora e sempre degna di questo nome – della Lega Nord, uscita, guarda tu le coincidenze, dalla bocca del dentista Roberto Calderoli, di spostare i ministeri da Roma, sarebbe stata accolta da un grido di gioia dei romani.
Abitassi ancora a Roma – purtroppo per non piegarmi alle maledette logiche clientelari mi sono auto-deportato in Lombardia – scenderei per strada a festeggiare e martellerei di telefonate il centralino della Lega Nord per chiedere come e quando Sua Canottiera presenterà l’annunciato disegno di legge per togliere a Roma i ministeri.
Ministeri fora di ball, come direbbe Sua Canottiera secessionista. Lo griderei anche io pur di vedere sottratti a Roma quei centri di potere marcio, mafioso, corrotto e corruttore detenuto – attenzione – da un nocciolo duro e impenetrabile di persone che soggiogano una pletora di onesti dipendenti ma fanno anche vivere come zecche un esercito di nullafacenti che sguazzano in quell’ambiente paludoso.
LA POLITICA ROMANA PAROLAIA
Invece niente. La politica romana si è chiusa a riccio. Il sindaco Gianni “tengo famiglia” Alemanno si è beato del fatto che la reazione del territorio ha alzato un muro alla proposta. Pur di salvare chiappe, poltrone e prebende si è gridato alla lesa maestà. Le funzioni di Roma capitale, ha detto l’ex missino, sono e resteranno univoche, unitarie e uniche. Ehia ehia alalà!
La Governatrice ajo, ojo e Campidojo Renata Polverini ha invitato i parlamentari laziali a uscire allo scoperto per esser pronti alla guerra. Ma quale guera!
Il presidente della Provincia Nicola “Montalbano” Zingaretti ha parlato di chiacchiere in liberta in un’intervista al Messaggero. Ha detto, esplicitamente, che questa proposta è il fallimento di Bossi.
NON HANNO CAPITO UNA BEATA FAVA
Potete immaginare la mia delusione. Quei nomi e quei cognomi – i moschettieri del nulla Alemanno, Polverini e Zingaretti ma ne potrei aggiungere decine – sono di persone che hanno, più o meno, la mia età. E non hanno capito una beata fava!
Un fallimento. Un disastro generazionale. Pensavo che sfruttasse
ro al volo l’occasione per liberare gradatamente, nel tempo, con un percorso decennale ma vivaddio finalmente percorribile, Roma dalle mafie ministeriali.
Speravo e credevo che in nome dei valori e dei principi nei quali la Politica deve sempre specchiarsi, i politici romani cogliessero al volo la proposta e rilanciassero, spiazzando i beceri secessionismi. Un contropiede degno della culla della cultura, della civiltà, della tolleranza e dell’accoglienza.
Invece nulla. Corporativismo, consociativismo, tutela dei voti e del potere della peggior specie hanno vinto. Con motivazioni risibili: come si fa trasferire migliaia di dipendenti da Roma a Milano, Rimini, Venezia, Firenze o Napoli, dicono in molti? Ma chi li trasferisce suvvia! E dire che Polverini dice di essere stata una sindacalista! Ma come si fa in quattro e quattro otto a trasferire decine di migliaia di persone al buio, in mancanza di sedi e contro il volere del dipendente? Impossibile, ergo il trasferimento non può che essere un progetto politico pianificato e da pianificare negli anni ma che deve portare a tagliare un traguardo: fora i ministeri da Roma. Che tocchi a Venezia, Milano, Torino, affrontare l’emergenza mafia-ministeriale! Che si dividano anche loro – in una sorta di ragnatela di competenze distribuite sul territorio – il peso di essere capitale. Che mostrino come si fronteggia e come si debella la mafia ministeriale. I politici romani e tutta la popolazione romana, saranno al vostro fianco perché avendola allevata giocoforza in casa, sa come si annida, come si sviluppa, come si alimenta. E come si può combattere in territori vergini, dove la metastasi non ha ancora attecchito. Questo doveva essere il ragionamento.
IL TRAPPOLONE
Invece i politici romani sono caduti – complice una cittadinanza indolente che così comportandosi dimostra ahimè di aver fatto propri quei germi parassitari e menefreghisti loro additati dal Nord – nel trappolone di Sua Canottiera.
Lo sa anche lui che l’ha sparata grossa. Lo ha fatto per smuovere, ancora una volta, la pancia grassa del suo elettorato tutto rutti e dialetto. Non a caso i milanesi innanzitutto, a loro volta, hanno reagito in maniera indolente e menefreghista all’ultima cazzata sparata in aria. Dimostrando, ancora una volta, che i settentrionali vedono i ministeri come fumo negli occhi e che un conto è invocarli per finta ma uè, non facciamo scherzi, un altro è averli davvero in casa! Che se li tenga la Capitale, altrimenti come facciamo a gridare Roma ladrona?
Peccato, ancora una volta, mi sono illuso che la Politica potesse essere intelligente. Invece – da Roma a Milano – è solo politica parolaia.
E quando mancano poche ore al 2 giugno, giorno di festa per e della Repubblica italiana, se permettete mi girano i ball. Anzi lo dico in romanesco sperando che al mio coro si uniscano centinaia di migliaia di romani che non ne possono più della burocrazia e della mafia ministeriale che strozza in un abbraccio mortale la città eterna: me girano i cojoni.
Viva l’Italia, viva Roma liberata dai ministeri.
p.s. Invito tutti ad ascoltare la mia trasmissione su Radio 24: “Sotto tiro – Storie di mafia e antimafia”. Ogni giorno dal lunedì al venerdì alle 6.45 circa e in replica alle 0.15 circa. Potete anche scaricare le puntate su www.radio24.it. Attendo anche segnalazioni e storie.
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