La Spagna, ieri, ha sequestrato tre aziende in Andalusia che operano nella produzione e commercializzazione di olio, latticini ed altri prodotti alimentari, per un valore complessivo di oltre 3 milioni.
I sequestri, nella provincia di Jaén, città spagnola con una forte attività agricola basata sulla monocultura dell’olivo e la produzione di olio sono “Industria siciliana oleicola y alimentaria sl”, con sede a Martos (Jaèn), “Aceites San Francesco Sl”, con sede ad Alcalà La Real (Jaèn); “Cosmoliva sl”, con sede ad Alcalà La Real (Jaèn).
Di chi sono queste aziende? Dell’imprenditore del settore oleario Diego Agrò, 64enne di Racalmuto (Agrigento), al quale lo scorso anno, sempre la Direzione investigativa antimafia di Palermo, aveva già sequestrato beni per 53 milioni di euro.
Il Tribunale di Agrigento, a giugno 2010, aveva trasmesso richiesta di rogatoria internazionale al ministero di Giustizia spagnolo per l’esecuzione del sequestro. Diego Agrò è stato arrestato nel 2007, insieme al fratello Ignazio, anch’egli imprenditore nel settore alimentare, nell’ambito dell’operazione antimafia “Domino 2” della Dda di Palermo, a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, già capo di Cosa nostra agrigentina, e condannato alla pena dell’ergastolo, nel 2009, dalla Corte d’Assise di Agrigento, per l’omicidio di Mariano Mancuso, avvenuto ad Aragona nel 1992.
In sede processuale è stata dimostrata la valenza criminale dei fratelli Agrò, nonché i loro stretti rapporti con i capi mafia della provincia agrigentina Salvatore Fragapane, Giuseppe Fanara e Maurizio Di Gati, ai quali gli imprenditori si rivolgevano per dirimere le controversie susseguenti alla loro attività di “usurai”, fino a spingersi ad ottenere l’uccisione di Mancuso che si era rifiutato di restituire il denaro avuto in prestito. Lo stesso Fragapane aveva investito denaro di Cosa nostra nell’attività degli Agrò che, grazie all’appoggio incondizionato dell’organizzazione, erano così riusciti ad incrementare il patrimonio personale.
PECCATO CHE…
Peccato che questa bella storia di successo al crimine internazionale che vi ho raccontato abbia un finale amaro. Ammesso e non concesso che questi ben vengano poi definitivamente confiscati, lo Stato italiano non incasserà mai un centesimo di quei beni che continueranno dunque a rimanere ai legittimi proprietari.
Perché? Perché la politica si riempie la bocca di belle parole. L’Italia non ha mai approvato con legge la decisione quadro 2006/783 del consiglio europeo, in materia di confisca e condanna.
Proprio questo è il passo che manca all’Italia e che rende impossibile – in base al principio di reciprocità che prevede che entrambi i Paesi recepiscano la normativa europea – la confisca dei beni.
Il caso – che ho già descritto in un post del 20 gennaio che chi desidera può reperire in archivio – è esploso in Commissione parlamentare antimafia, dove a porre il problema è stata l’onorevole del Pd Laura Garavini, che da tempo risiede in Germania, nazione nella quale proprio a gennaio è stato impossibile confiscare definitivamente due pizzerie in mano alle mafie italiane.
Il 19 gennaio Laura Garavini ha depositò un’interpellanza urgente al ministro della Giustizia Angelino Alfano e a quello delle Politiche europee, Andrea Ronchi, avvalorata dal fatto che a memoria della stessa Commissione quello era il primo caso finora emerso di confische impossibili da portare a termine oltreconfine.
Il ritardo per l’Italia – rispetto al termine del 24 novembre 2008 fissato dalla legge comunitaria 2008 – è di oltre due anni. Il Governo Prodi era giunto sul filo del traguardo ma la fine anticipata della legislatura interruppe il processo.
L’attuale Esecutivo ha esercitato la delega entro l’ultimo giorno utile previsto dal comma 1, dell’articolo 49 della legge comunitaria 2008. Lo schema del decreto legislativo 239/2010 è stato presentato alle commissioni competenti il 28 luglio 2010, al limite dello scadere del tempo e a ridosso della chiusura estiva dei lavori parlamentari. La Commissione giustizia non ha potuto fornire nei tempi utili il parere e, denuncia l’onorevole Garavini, nonostante il decreto legislativo possa essere emanato anche in assenza del parere parlamentare, una serie di previsioni contenute nella legge comunitaria 2008 hanno permesso di far slittare ulteriormente i termini e in definitiva di far scadere il termine per l’esercizio della delega.
Il Governo non si poi è attivato per evitare la mancata attuazione della decisione quadro e per il momento non ha inserito alcuna disposizione nell’ambito della legge comunitaria 2011 (disegno di legge n. 2322).
Oltre alla Germania hanno recepito la decisione quadro anche la Francia e proprio la Spagna, quest’ultima nazione dove gli investimenti delle mafie italiane sono numerosi, come dimostra l’attivismo della Procura distrettuale antimafia di Napoli. L’onorevole Garavini è secca nel giudizio: “Anzichè vantarsi di avere la migliore legislazione antimafia al mondo, l’Italia dovrebbe preoccuparsi di non comprometterne la validità, premurandosi di recepire la decisione comunitaria. La lotta alla mafie ha ormai sempre più un respiro internazionale”.
NULLA E’ CAMBIATO
Da gennaio a oggi nulla è cambiato. Il Governo non ha recepito in sede di discussione della Comunitaria l’emendamento che avrebbe dovuto sanare questa situazione al Senato e, come mi ha dichiarato questa mattina l’onorevole Garavini “tutto lascia pensare che non lo farà neppure alla Camera”. Motivo per il quale il Pd sta pensdando di presentare autonomamente un progetto di legge. “Il Governo – dichiara Garavini – si rimepie di parole nella lotta alla mafia”.
Sarà così, non sarà così, fatto sta che la scorsa settimana l’attuale procuratore generale della Repubblica di Ancona, Enzo Macrì, per una vita sostituto procuratore nazionale antimafia, è salito a Bruxelles e in Commissione, tra le tante doglianze sulla mancata armonizzazione delle legislazioni europee in materia antimafia, ha ricordato anche questa.
Che bella figura. Il Paese della mafia e dell’antimafia (a parole però).
Vamonòs….
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