“Si stringe il cerchio attorno al latitante numero uno Matteo Messina Denaro e sono ottimista sul fatto che molto presto riusciremo a catturarlo". A dirlo, ieri, lunedì 15 marzo, è stato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, parlando dell’importantissima operazione antimafia dello Sezione criminalità organizzata (Sco) della Polizia statale di Trapani.
“E' stata smantellata la rete postale del boss latitante numero uno dei trenta latitanti più pericolosi, Matteo Messina Denaro, che attraverso una rete di uomini faceva circolare le sue disposizioni con il sistema dei pizzini", ha aggiunto tronfio.
Attorno a Matteo Messina Denaro, ha detto Maroni, si sta facendo "terra bruciata". Si tratta di una "grandissima operazione della Polizia di stato, tra quelle più importanti degli ultimi dieci anni".
Gli indagati 19, e tra questi Salvatore, il fratello di Matteo Messina Denaro, devono rispondere, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, danneggiamenti e trasferimento fraudolento di societa' e valori.
L’operazione, neppure a dirlo, si è concentrata nella zona di Castelvetrano, il paese natale di Matteo Messina Denaro. Contestualmente all'esecuzione dei provvedimenti di fermo, gli investigatori della Polizia, con il supporto dei Reparti Prevenzione Crimine, hanno eseguito 40 perquisizioni, in diverse regioni italiane nelle province di Trapani, Palermo, Caltanissetta, Torino, Como, Milano, Imperia, Lucca e Siena,
Le indagini della polizia sono state coordinate dal Procuratore di Palermo Francesco Messineo, dall'aggiunto Teresa Principato e dai Pm Marzia Sabella e Paolo Guido. L'operazione e' stato denominata in codice Golem 2. Gli arresti costituiscono infatti il seguito dell'operazione Golem 1 del giugno scorso, condotta da uno speciale team investigativo, con l'obiettivo di disarticolare la rete di complicita' che avrebbe favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro. Tra i destinatari dei provvedimenti restrittivi figurano infatti alcuni fedelissimi del padrino trapanese che avrebbero svolto il ruolo di ''postini'' per recapitare la corrispondenza del boss contenente ordini e disposizioni. Gli investigatori sono riusciti a intercettare alcuni pizzini attribuiti a Messina Denaro, che in passato aveva avuto un fitto scambio epistolare con Bernardo Provenzano e i boss Lo Piccolo. In cella sono finiti anche alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra trapanese, tra cui i reggenti delle famiglie mafiose di Castelvetrano, Campobello di Mazara, Partanna e Marsala che avrebbero svolto un ruolo di raccordo tra Messina Denaro e i suoi affiliati nonche' con i vertici delle cosche palermitane.
Mi divertirò a raccontarvi un po’ di cose sulla mafia trapanese e sull’importanza dei pizzini: l’altroieri, ieri e..oggi. In una parola: sempre.
I FIANCHEGGIATORI “ESTASIATI”
Matteo Messina Denaro prosegue imperterrito – anche se potrebbe avere i giorni contati – la latitanza, agevolata da una cerchia indefinita di fiancheggiatori che al momento opportuno si mettono a disposizione, fornendo ogni contributo funzionale al perseguimento di specifici obiettivi dell’organizzazione.
I provvedimenti restrittivi e le sentenze di condanna emesse anche nel 2009 nei confronti di numerosi soggetti incensurati del tutto estranei all’organizzazione mafiosa, responsabili di aver svolto all’interno di Cosa Nostra ruoli marginali ma significativi, se non addirittura vitali, per l’esistenza stessa dell’organizzazione, sono una chiara dimostrazione dell’assunto.
Le cosche trapanesi, almeno prima dell’ondata di ieri, vivevano un momento di relativa tranquillità sotto il profilo dell’”effervescenza criminale”. Non risultano situazioni di conflittualità tra le diverse organizzazioni presenti in territorio trapanese, che possano sfociare in sanguinose faide o comunque determinare momenti di squilibrio.
“Può anzi affermarsi, alla luce delle risultanze acquisite dalle indagini effettuate – si legge nella parte siciliana della relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) di fine dicembre 2009 scritta dai magistrati Roberto Alfonso, Gianfranco Donadio e Maurizio del Lucia – che in atto nella provincia vi è una sostanziale stabilità degli equilibri mafiosi, salvaguardata dal comune interesse ad evitare conflitti, che danneggerebbero gli affari e renderebbero del tutto improponibile ogni ulteriore tentativo di ottenere eventuali benefici per gli affiliati detenuti.
E’ da ritenere che l’obiettivo sia, dopo anni di contrasti fin troppo tumultuosi, quello di mantenere la tradizionale strategia mafiosa basata sull’infiltrazione dei centri di potere e di controllo amministrativo-finanziario, al fine di ottenere una sorta di monopolio in quei settori maggiormente remunerativi, primo fra tutti quello degli appalti pubblici.
Le indagini più recentemente svolte hanno altresì dimostrato che in alcuni importanti centri della provincia trapanese il controllo delle famiglie mafiose è stato ripreso da alcuni esperti “uomini d’onore” che – dopo avere evitato la condanna per gravi delitti-fine dell’associazione di cui fanno parte e dopo avere scontato le pene loro inflitte per il delitto di associazione mafiosa (pene particolarmente miti in considerazione del non elevato limite edittale e delle riduzioni per il frequente ricorso a riti alternativi, come il giudizio abbreviato) – si sono naturalmente reinseriti nell’organizzazione criminale di appartenenza. Inoltre i dati informativi che emergono dalle attività investigative forniscono una conferma delle linee tendenziali evidenziate già a partire dalla metà degli anni ’90 in ordine alla presenza sempre più radicata dell’associazione mafiosa nel tessuto economico e all’interno delle amministrazioni locali, che si esplica in un capillare controllo delle attività economiche considerate strategiche (la produzione di calcestruzzo e di inerti, il settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti, le speculazioni edilizie) nonché attraverso l’infiltrazione nel settore dei lavori pubblici e degli appalti,
accompagnato da una sempre più diffusa imposizione del “pizzo” sulle più
rilevanti iniziative imprenditoriali”.
LA MAPPA DEL REGNO DI MESSINA DENARO
Intorno al “re” criminale nella provincia trapanese le famiglie risultano essere 17, riunite in 4 mandamenti:
1) il mandamento di Trapani, che ricomprende le famiglie di Trapani, di
Valderice, Custonaci e di Paceco. Le più recenti acquisizioni giudiziarie
hanno attestato il ruolo di Francesco Pace, uomo di vertice a Trapani, soprattutto nella gestione illecita degli appalti pubblici per conto di cosa nostra.
2) Il mandamento di Alcamo, che ricomprende le famiglie di Alcamo, Calatafimi e Castellammare; nel passato ricomprendeva anche la famiglia di Camporeale il cui rappresentante era Lillo Sacco; durante la guerra di mafia dei primi ani '80 il mandamento di Alcamo venne sciolto e le relative famiglie furono aggregate al mandamento di Mazara;
successivamente venne ricomposta la famiglia di Alcamo e ricostituito il relativo mandamento.
3) Il mandamento di Castelvetrano, a cui capo è direttamente Matteo Messina Denaro, che ricomprende le famiglie di Castelvetrano, Campobello di Mazara, Salaparuta e Poggioreale (questi ultimi due centri formano un’unica famiglia), Partanna, Ghibellina, Santa Ninfa;
4) Il mandamento di Mazara del Vallo, che ricomprende le famiglie di
Mazara del Vallo, Salemi, Vita e Marsala.
QUELL’ASSE PALERMO-TRAPANI
Neppure a farlo apposta, nello scorso post, pubblicato l’11 marzo, avevo descritto lo stretto rapporto che esiste tra Cosa Nostra palermitana e quella trapanese: stesse modalità operative, settori di interesse, ordinamento gerarchico, analoga suddivisione del territorio: si può anzi affermare che Cosa Nostra trapanese si contraddistingue per gli stretti collegamenti che da sempre l’accomunano alle più rappresentative cosche del palermitano.
Alleata da sempre con le cosche corleonesi, anche per via dello stretto rapporto instaurato nel tempo tra Totò Riina e Matteo Messina Denaro e la sua gang di criminali incalliti, Cosa Nostra trapanese ha agito in sinergia con esponenti delle famiglie mafiose della provincia di Palermo, presso le quali è stata accreditata proprio da Totò Riina.
Una specificità della criminalità trapanese, fin da anni remoti, è lo strettissimo e pericoloso legame intercorrente tra logge massoniche, mafia, settori della borghesia professionale e pubblica amministrazione: un’ulteriore e recente conferma dell’attualità di tale legame è costituita dalla cosiddetta “operazione Black out” nei confronti di Michele Accomando e altri otto “compari”, per i reati di associazione mafiosa, favoreggiamento aggravato, turbata libertà degli incanti, detenzione illegale di armi ed esplosivi.
L’analisi dei dati che emergono dalle più recenti i
ndagini sulla criminalità
mafiosa conferma che Cosa nostra palermitana continua, attraverso i suoi
vertici, ad imporre le strategie generali della organizzazione anche nel territorio
trapanese, ingerendosi pesantemente nella sua “gestione”, nel rispetto del più
tradizionale assetto verticistico che caratterizza l’organizzazione.
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI…ALESSIO
Queste valutazioni trovano piena conferma nell’analisi degli sviluppi conseguenti alla cattura di Bernardo Provenzano avvenuta l'11 aprile 2006, dopo una lunghissima latitanza.
Tra i diversi documenti rinvenuti nel casolare di Montagna dei Cavalli
figurano diverse missive che, avuto in particolare riguardo alle specifiche
circostanze, agli affari, alle vicende e ai nominativi in esse indicati, devono
certamente essere attribuite a Matteo Messina Denaro, capo indiscusso della provincia mafiosa di Trapani, che ha sempre sottoscritto con il nome di “Alessio”.
Alessio-Matteo (Messina Denaro) ha intrattenuto con Provenzano una fitta corrispondenza epistolare. Nei pizzini trovano conferma le pregresse, numerose acquisizioni investigative sui principali settori di intervento di Cosa Nostra, ed in particolare sugli appalti, sulle linee e gli orientamenti secondo i quali tale intervento è stato modulato e diretto dallo stesso Provenzano, sulle modalità di ripartizione degli illeciti proventi in ragione della competenza territoriale,
In tal senso è emblematica la vicenda riguardante una impresa di Favara (città della provincia di Agrigento il cui capo di Cosa Nostra è, sin dal 2002/ 2003, Giuseppe Falsone, tristemente famosa negli ultimi mesi per gli smottamenti del terreno che hanno provocato vittime e polemiche), che aveva eseguito dei lavori a Partanna, città belicina ricadente nel mandamento di Castelvetrano storicamente retto dai Messina Denaro, prima da Francesco e, dopo la sua morte, da Matteo. Nei pizzini si indicano le problematiche nascenti dal fatto che l’impresa non aveva completato il pagamento delle somme di denaro “dovute” a titolo di “pizzo” alla famiglia di Castelvetrano per avere consentito di effettuare i lavori.
Con la missiva del 7 gennaio 2002 Provenzano, grazie ai rapporti e i canali che Giuffrè aveva con Cosa Nostra di Agrigento, lo incarica di risolvere la questione, specificandogli espressamente che la richiesta proveniva da persona il cui nome era abbreviato in “Matt” che Giuffrè, nel corso di un interrogatorio, ha chiarito appunto trattarsi di Matteo Messina Denaro.
PIZZINI, PIZZINI E ANCORA PIZZINI
Dalle lettere di Matteo Messina Denaro emerge il rispetto e il vincolo di subordinazione gerarchica nei confronti del Provenzano, così come emerge l’esigenza di informarlo sugli affari.
Dopo l’arresto di Provenzano, Matteo Messina Denaro deve obbligatoriamente e affannosamente ristabilire un contatto con coloro che costituivano i boss emergenti di Cosa Nostra palermitana: Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro, pericolosi killers posti ai vertici della famiglia mafiosa e del mandamento di San Lorenzo, al tempo ancora latitanti.
Nel periodo che va dall’aprile al novembre 2007 questo nuovo asse concorda nuove modalità per ristabilire una più sicura strategia di comunicazione. La ricostruzione delle varie fasi preparatorie di tale nuovo sistema (scandite da una serie di incontri segreti tra i principali emissari degli uomini d’onore, ovvero tra Francesco Luppino, Domenico Serio e Ferdinando Gallina, il primo, in favore del latitante trapanese, e gli altri due, di quello palermitano) è avvenuta attraverso l’analisi delle informazioni fornite dai collaboratori, le fotografie di individui e luoghi, e ancora l’analis
i di “pizzini” sequestrati in occasione della cattura dei Lo Piccolo, la disamina di tabulati telefonici e, infine, le intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Tutto ciò consentì agli investigatori di stabilire che proprio alla fine dell’estate
del 2007 veniva ripristinato il canale di messaggerie, con lo scambio di “pizzini”.
Quei pizzini che ora ritornano e che, speriamo, possano aggiungere nuovi anelli alla catena delle conoscenze che dovranno incastrare Matteo Messina Denaro e i suoi mille compari tra i politici, i professionisti e la cosiddetta società civile.
r.galullo@ilsole24ore.com