La “copula nella cupola”/1 L’evoluzione della ‘ndrangheta nell’audizione del capo della Procura di Reggio Calabria in Commissione antimafia

L’audizione del 13 ottobre 2016 in Commissione parlamentare antimafia della Dda di Reggio Calabria ha fornito diverse conferme dialettiche – non poteva essere diversamente – alla linea investigativa che, solo da pochi anni a questa parte, la Procura ha deciso di perseguire senza riserve.

Vale a dire andare oltre la componente “zampognara” della ‘ndrangheta, la sola che tanto ha appassionato per decenni presunti esperti, presunti analisti e presunti giornalisti come unica anima criminale della consorteria mafiosa.

Una componente “zampognara” – lo ribadisco per la milionesima volta perché c’è sempre qualche imbecille pronto volontariamente a male interpretare – che è vitale per l’essenza stessa della ‘ndrangheta, poiché è da sempre violenta agenzia di servizio criminale nel nome degli affari. Ma, al tempo stesso, una componente che – se non avesse un’interfaccia superiore e diverso, corrotto e riservato, segreto e corruttore, invisibile e marcio – sarebbe stata facilmente debellata negli anni.

Inutile sostenere il contrario e questo discorso vale per tutte le mafie. O meglio, nel rispetto di tutte le opinioni, ciascuno è libero di sostenere il contrario ma non mi convincerà.

Dico di più. Ho la sensazione nettissima che l’audizione del capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho – che conosco e stimo da una vita e questo, a maggior ragione, mi obbliga sempre a scrivere e pensare in assoluta libertà di giudizio e opinione – sia stata con il freno a mano tirato.

Sotto il legittimo e condivisibile scudo della massima “tutto ciò che non è processualmente e definitivamente provato non può essere assunto come verità giudiziaria”, ho la sensazione che il capo della Procura abbia voluto frenare facili entusiasmi sul cosiddetto “terzo livello” e sulla unitarietà delle mafie.

Chiarissimi, a tal proposito, due passaggi.

IL TERZO LIVELLO

Il primo è quando Cafiero De Raho afferma: «Voglio però anche qui precisare che quando si parla degli invisibili, di questa componente riservata, non è certamente qualcosa di diverso rispetto alla ’ndrangheta, né qualcosa di superiore alla ’ndrangheta, così come la stampa in qualche caso ha riferito. Quando si parla di componente riservata, si parla semplicemente di soggetti che, per il ruolo che rivestono, per l’apporto che danno alla ’ndrangheta, per il versante su cui operano devono essere mantenuti coperti. Sono quei soggetti che operano a livelli altissimi, che hanno rapporti con la politica e con i soggetti esponenziali delle amministrazioni locali».
Ragionamento correttissimo e condivisibile con una – a giudizio di questo umile e umido blog – doverosa e imprescindibile precisazione: la ‘ndrangheta questo è sempre stata e non solo da 10 o 15 anni. Così come del resto anche Cosa nostra. Il problema – semmai – è che il bandolo della matassa, già scoperto con Olimpia, è stato ripreso a distanza di troppi anni. Averlo ripreso è un suo indiscutibile merito ma c’è da chiedersi: e prima cosa è successo?

Non è un caso che il “nocciolo duro” di quanto le ultime indagini della Dda di Reggio Calabria stanno svelando, affonda le radici nei moti di Reggio, in quella collusione tra Stato infedele e ‘ndrangheta, nell’abbraccio tra professionisti marci e politica allevata a “vangelo”, nel mercimonio tra finti servitori delle Istituzioni (servizi segreti in primis) e vagiti di giornalismo corrotto. Un nocciolo duro alimentato poi negli anni Novanta dalla “copula nella cupola”, vale a dire l’accoppiamento perverso tra massoneria deviata e tutto il resto che nella vita sociale e politica era stato già coinvolto e corrotto.

Se dunque parte della stampa ha parlato di qualcosa di superiore o di diverso rispetto alla ‘ndrangheta è solo perché, caro Procuratore, abbacinati da decenni di parole al vento – alimentate in larghissima parte da investigatori, inquirenti, politici e “giornalai” – secondo le quali le mafie erano solo coppola e lupara, baffetti da sparviero, minchia e soppressata, buona parte della stessa stampa è rimasta incredula di fronte all’improvvisa scoperta dell’altro lato della medaglia, che poi è la stessa.

Le dirò di più, caro Procuratore.

Non si sorprenda lei se un domani scoprirà che nelle redazioni c’è stato un gioco “al ribasso” – indotto dai refoli mediatici dell’ampio e ancor in massima parte sconosciuto sistema criminale – nella considerazione giornalistica di indagini come, cito a mò di esempio, Sistema Reggio, Reghion, Fata Morgana e da ultimo Mammasantissima. Era già successo con Meta e prima ancora con Sistemi criminali della Dda di Palermo e, in parte con Olimpia. Succederà ancora. Sta succedendo. Come del resto sta accadendo a Roma con l’indagine Mondo di mezzo dove – al di là delle legittime critiche dei media che sono sale del giornalismo e conseguentemente della democrazia – alcuni canali informativi giocano una partita sporca negando persino che a Roma esistano le mafie. Vivaddio: Roma è la quintessenza delle mafie da almeno 50 anni e un fenomeno indigeno come la Banda della Magliana mai sarebbe potuto sorgere se non in un laboratorio che aveva già sperimentato Cosa Nostra, gli albori della ‘ndrangheta, la politica corrotta e lo Stato deviato fin nelle viscere più recondite. Semmai – anche qui – l’indagine Mondo di mezzo svela per ora solo la punta microscopica e pecoreccia di un iceberg gigantesco e rovinoso.

Fa comodo a tutti caro Procuratore – tranne a pochissimi – far credere che la ‘ndrangheta sia solo “apecar e soppressata, santini e bruciatine” così come fa gioco a tutti – se non a pochi che hanno il desiderio di scoprire le altre “mezze verità” – far credere che Cosa nostra sia “cicoria e ricotta, piccioli e picciotti”.

Fossi in lei, dunque, caro Procuratore, gioirei del fatto che parte della stampa parla di livello superiore alla ‘ndrangheta. Non solo perché in quota parte è vero (De Stefano è uguale a centinaia di altre famiglie ‘ndranghetiste? Non mi risulta e non risulta neppure dalle indagini che state conducendo) ma soprattutto se questo serve ad alimentare il fuoco delle informazioni e la luce dei riflettori sulle indagini che da Reggio a Palermo, passando per Catania, Roma e Firenze, pochi indefessi magistrati stanno portando avanti. Il rischio, mi creda, è che il fuoco si spenga e le luci si oscurino e la ‘ndrangheta, così come per altri versi Cosa nostra, torni ad essere il “gioco di Polsi”.

LA MAFIA UNITARIA

Il secondo passaggio è quello relativo alla cosiddetta unitarietà delle mafie. Anche qui lei è stato netto: «L’unitarietà non solo non è dimostrata, ma non è nemmeno sostenuta. Quel che si voleva dire è che ci sono dei collegamenti fra ’ndrangheta e cosa nostra che a volte sono stati molto importanti, tanto da determinare l’adesione a vere e proprie strategie, che in certi momenti hanno finito per rendere le due formazioni criminali unitarie nella finalità, ma che poi l’evoluzione della scelta ha visto separarsi».

Ecco anche su questo passaggio – ancor più fondamentale nella ricostruzione dell’altra parte di verità della nostra recente storia democratica – credo che sia stato doveroso da parte sua disegnare gli attuali confini investigativi e tirare il freno a mano.

Credo altresì che se la sua Procura e le altre che stanno applicandosi alla ricostruzione di mortali episodi per la vita di questo Paese corrotto, continueranno a fare il proprio mestiere senza guardare in faccia a nessuno (e su questo non nutro alcun dubbio), si scoprirà che i collegamenti tra le mafie sono molto più che “qualche collegamento” e che i tratti di strada percorsi insieme per decisione congiunta, condivisa, voluta e mirata, negli ultimi 30 anni siano molti di più di quelli percorsi ciascuno per proprio conto. Una “federazione” mortalmente lungimirante che non è “unitarietà eterna” anche se sommessamente ricordo in primis a me stesso che nessuno Stato al mondo (e dunque nessun sistema costituito) è più unitario di quelli federati. Gli “Stati Uniti” insegnano e la Germania certifica.

A domani – e per tutta la settimana –con nuovi approfondimenti della audizione della Dda di Reggio Calabria davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

r.galullo@ilsole24ore.com

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