Il 25 agosto 1990 Licio Gelli, morto ad Arezzo il 15 dicembre 2015 ed ex Gran Maestro Venerabile, scrive a Giuliano Di Bernardo, all’epoca Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi) poi, dal ’93, Gran Maestro della Gran Loggia regolare d’Italia e dal 2001 a capo di Dignity Order, un ordine internazionale con sede a Vienna e che conta su un elìte italiana di un centinaio di affiliati.
Di alcuni brani di questa lettera – quelli in cui, a sorpresa, chiedeva per sé e per i propri affiliati di rientrare nel Goi con una procedura trasparente – ho dato conto sul Sole-24 Ore in un articolo scritto il 18 dicembre 2015. Oggi dò conto di un altro spaccato di quella missiva (e proseguirò nei prossimi giorni con altri aspetti inediti che tracciano un profilo di Gelli come pervicace difensore della sua loggia che, ricordiamolo sempre, venne bandita dallo stesso Goi).
Gelli trova spazio e tempo per fornire la propria lettura di quella che considera una grande congiura «architettata dal Kgb, per destabilizzare Paesi non direttamente controllati dall’Unione Sovietica». Una storia già sentita, così come quella della stampa «guidata e prezzolata e quella che seguiva per ignoranza e scandalismo».
Quel che emerge con forza è – invece – la certezza dell’ex Venerabile nel buon esito delle indagini sul conto della P2.
Nei fatti una previsione azzeccata, visto che la loggia uscì indenne dalla tempesta giudiziaria e venne sanzionata solo politicamente dalla Commissione guidata da Tina Anselmi. «Non è un mistero per alcuno – scrive infatti Gelli – che le conclusioni saranno interamente assolutorie. In altri termini la “famigerata” Loggia di Licio Gelli, alla quale sono stati ascritti tutti i reati previsti dal codice penale, uscirà pulita, anzi, immacolata dalla sua ingiusta e assurda e inimmaginabile disavventura giudiziaria. E non potrebbe essere altrimenti, perché, nonostante i giudici comunisti, il nostro è ancora uno Stato di diritto».
Ancor più ferma e decisa fu la difesa che Gelli farà dei suoi “fratelli” di loggia, «frastornati dalle accuse più inverosimili, colpiti nella carriera, se non allontanati o sospesi dal posti di lavoro, colpiti negli affetti familiari e nel prestigio davanti a un’opinione pubblica sbalordita, questi ultimi si ritrovarono soli davanti a nemici spietati e agguerriti». Una difesa a oltranza che prosegue laddove Gelli scrive che quei “fratelli” sono stati «accusati di aver aderito alla P.2 per smanie di carrierismo. Niente di più falso. Nome dopo nome, potrei dimostrare che gli iscritti alla R.L. P.2. non si sono mossi dai gradi che rivestivano nelle varie amministrazioni o nell’ambito professionale, all’atto del loro ingresso in Loggia, salvo gli avanzamenti legati all’anzianità di servizio o a meriti personali incontestabili». Del resto nessuno, a dire di Gelli, poteva sollecitarlo, perché sarebbe stata una «colpa massonica».
E allora perché in tanti facevano la fila per essere ricevuti e introdotti da Gelli alla massoneria? Anche per questo l’ex Venerabile ha una risposta pronta: «Avevano bussato alla porta del Tempio perché disgustati dal comportamento dei partiti e dall’asservimento della società al partitismo dilagante e anche dalla Chiesa Cattolica o perché richiamati dagli ideali e dal fascino dell’Istituzione».
Gelli chiamava così la P2: l’Istituzione, con la i maiuscola.
1- To be continued