Giuseppe Pelle da San Luca: “Grande Puffo” o capocosca? Leggere per credere (in attesa di risposta)

Pochi giorni fa – il 29 aprile per l’esattezza – la Calabria si è svogliatamente risvegliata al suono dell’ennesima operazione anti-‘ndrangheta (denominata “Reale 6”).

L’operazione, delegata ai Carabinieri del Ros e al Gico della Guardia di finanza dai pm della Dda di Reggio Calabria Antonio Gratteri, Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò, che l’hanno coordinata, ha strapazzato, ancora una volta, mister preferenze Santi Zappalà, candidato (eletto) per il Popolo della libertà alle regionali del 2010. Costui, secondo l’accusa, avrebbe fatto il giro delle sette parrocchie mafiose pur di raccattare gli indegni e miserevoli voti controllati dalla ‘ndrangheta. Rimando al link a fondo pagina per il servizio di ieri e martedì.

Oggi vi intrattengo su una questione che dovrebbe aprire a tutti gli occhi sulle enormi difficoltà che si trovano di fronte i (pochi) magistrati che hanno a cuore la lotta ai sistemi criminali, vale a dire quella rete composta, oltre che dalla mafie che ne detengono una sostanziosa quota parte, anche da servitori infedeli dello Stato, professionisti (giornalisti compresi) venduti, massoni deviati, politici allevati o venduti.

Ebbene i tre pm e il gip Cinzia Barillà (che il 17 aprile ha firmato l’ordinanza) per disegnare l’”altissimo” profilo (spero si colga l’ironia) di Giuseppe Pelle, classe 60, alias “gambazza”, di San Luca, sono stati costretti a smontare pezzo per pezzo il dubbio, espresso dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione il 26 giugno 2014 sul ruolo dello stesso Pelle all’interno della ‘ndrangheta: ‘ndranghetista “saggio” e grande consigliere, una specie di Grande Puffo (Grand Schtroumpf) che dall’alto della sua “grandezza” morale ed etica dispensa pareri, consigli e decisioni oppure anche capo di una cosca criminalmente attiva nel suo territorio?

Il dubbio che introduce la Corte di Cassazione, con la sentenza del 26 giugno 2014, è «se il ruolo dallo stesso assunto fosse conseguenza dell’essere egli a capo di una cosca locale (appunto, la ”cosca Pelle”), oppure fosse stato reso possibile come sostiene lo stesso ricorrente, a vantaggio degli altri imputati dalla sua particolare autorevolezza personale, che egli derivava anche dall’essere figlio di Pelle Antonio, da poco deceduto, anch’egli in possesso della medesima “autorevolezza mafiosa”: che permetteva ad entrambi di intervenire nelle questioni più importanti della vita della ‘ndrangheta in una posizione super partes, come degli anziani saggi cui chiedere pareri, consigli e, se necessario, decisioni».

Il Gip (sulla scorta delle valutazioni espresse nella richiesta dai tre pm) si è messo a smontare il “dubbio” della Cassazione per dimostrate l’esistenza della cosca e il ruolo di “gambazza” che non è, secondo la sua ricostruzione, propriamente quello del Grande Puffo nel villaggio dei puffi. Una ricostruzione della quale i tre pm sperano che tenga conto la Corte di appello di Reggio Calabria alla quale, proprio sullo specifico punto dell’esistenza della “cosca Pelle”, diramazione territoriale di ‘ndrangheta, la Cassazione, con quella sentenza del 26 giugno 2014, ha rinviato per un nuovo esame.

Cosca o non cosca (si pronuncerà nuovamente la Corte d’appello ma intanto Gratteri, De Bernardo e Musarò non hanno dubbi) c’è da leggere quanto sottoscrive il Gip Cinzia Barillà a pagina 19 allorquando, partendo dalla storica figura di Antonio Pelle (classe ‘32) parla di «dinastia mafiosa». In merito all’associazione malavitosa alla quale apparteneva “gambazza” padre, Barillà la riassume così: 1) era definita malavita, ‘ndrangheta od onorata società; 2) si entrava a fare parte di essa tramite rituali di affiliazione alla presenza di altri affiliati; 3) il grado più basso dell’organizzazione era quello di “picciotto”; 4) era basata sullo schema della doppia compartimentazione, ovvero in società minore e società maggiore, ciascuna di esse diretta da un “capo”; 5) l’intera Onorata Società di San Luca era governata da un capo; 6) presentava i caratteri di stabilità, segretezza, clandestinità ed omertà; 7) presentava ferree regole sociali e di rigida gerarchia; 8) presentava una giustizia amministrata all’interno dell’organizzazione per mezzo di una “assemblea della malavita”, presieduta da un sodale, la quale applicava proprie sanzioni; 9) presentava un preciso programma criminoso; 10) esercitava un condizionamento sui singoli e sulla società, con conseguente assoggettamento alla consorteria criminale. «Vi è quanto basta per ritenere ricostruita e risalente nel tempo la storia criminale di questa famiglia “Pelle-Gambazza – scrive dunque Barillà a pagina 28 a mò di esempio perché poi ne seguiranno altri che vi risparmio ma un altro, vi annuncio, lo leggerete nelle prossime ore perché è straordinariamente interessante – in termini di controllo del territorio, di adesione alle regole ed alle riunioni di ‘ndrangheta, di esecuzione anche in via cruenta dei conflitti interni, in guisa da generare l’assoluta obbedienza ed omertà nella popolazione locale, sulla quale esercita un potere mafioso antico e tramandato ius sanguinis, ma non senza che si rinnovi con l’incarnazione di nuove figure delinquenziali e di più potenti e ambiziose attività criminose».

Stenterete a crederci ma il gip Barillà impiega la bellezza di altre 122 pagine (da pagina 4 a pagina 126) fitte di ragioni e motivazioni tratte da sentenze e informative della polizia giudiziaria per giungere a questa conclusione che ora passa (come l’intera ordinanza e i futuri sviluppi investigativi) anche nelle mani della sezione di Corte d’appello chiamata a esprimersi sulla vicenda “cosca Pelle sì”, “cosca Pelle no”, “cosca Pelle forse”, “cosca Pelle quando”, “cosca Pelle ma”, “cosca Pelle boh!”: «Ritenuta sulla scorta di ciò dunque pienamente operativa ed esistente la cellula criminale di ‘ndrangheta riferibile alla famiglia Pelle, alias “Gambazza” può, ora, di seguito riproporsi la sintesi del P.M. in relazione allo specifico aspetto….».

E ancora, a pagina 133 Barillà scrive: «…la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna pronunciata nei confronti di Zappalà Santi limitatamente alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91 conv. in L. 203/91 (vale dire la modalità mafiosa, ndr) , rinviando gli atti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria per un nuovo esame. Le motivazioni di quest’ultima sentenza non sono ancora state pubblicate,. ma si può sin d’ora anticipare che le risultanze compendiate nella presente richiesta (che verranno trasmesse alla Procura Generale presso la Corte di Appello ai fini dell’utilizzazione nel giudizio di rinvio) confermano in modo incontestabile la sussistenza della predetta circostanza aggravante».

Ora mi fermo. Alle prossime ore con un ultima considerazione su questa operazione.

r.galullo@ilsole24ore.com

3 – to be continued (per le precedenti puntate si vedano

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/05/05/la-politica-in-calabria-36-euro-a-voto-nelle-regionali-del-2010-ma-come-si-rientra-da-un-investimento-di-400mila-euro/

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/05/06/la-catena-politica-dalla-culla-comunali-alla-tomba-politiche-secondo-san-giuseppe-pelle-da-san-luca/)