Il 12 febbraio 2014 il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il suo storico aggiunto Michele Prestipino Giarritta siedono davanti alla Commissione parlamentare antimafia.
Giovedì scorso e poi ancora lunedì abbiamo analizzato insieme un aspetto (sur)reale: l’esistenza o meno delle mafie a Roma, i rapporti criminali e gli “attori” di questi rapporti e le strategie investigative per prendere di petto mafie e cultura mafiosa. Abbiamo letto dei ritardi con i quali (dai tempi della Banda della Magliana in poi) lo Stato si è mosso.
Martedì ci siamo trasferiti fuori dalla Capitale. Sul litorale laziale, ad Ostia e dintorni. Qui le indagini investigative hanno (ri)scoperto quello che tutti, a Roma, sanno: vale a dire che quella propaggine della Capitale è luogo di mafia. Qui la Procura di Roma – per il momento – ha accertato che operano due gruppi. E a Roma quanti ne operano e con quali indicibili coperture?
Oggi ondeggiamo tra la Sicilia e il Lazio, grazie al procuratore aggiunto di Roma, Prestipino Giarritta che, dopo aver finito di spiegare i patti criminali e lo scarso coraggio degli imprenditori nel denunciare, introduce quella che lui stesso definisce «la questione Attilio Manca».
Lo fa in risposta al quesito del senatore del M5S Mario Michele Giarrusso che poco prima aveva domandato: «Su un'altra vicenda triste e molto dolorosa, che vede noi del Movimento 5 Stelle in prima linea, vorremmo chiedere notizie. Si tratta di quella di Attilio Manca, che sicuramente lei, procuratore, conosce e che è una delle storie allarmanti e tragiche del nostro Paese. Vorremmo sapere che cosa pensa la procura di Roma di questa vicenda».
UN’ULTIMA QUESTIONE
Leggiamo cosa dice il procuratore aggiunto: «C’è un’ ultima questione veramente di sessanta secondi: la questione di Attilio Manca. Io ora non parlo come procuratore aggiunto di Roma, perché Roma, che a me consti, non credo abbia attivato o seguito indagini. Ci sono le regole della competenza.
Io me ne sono occupato quando ero sostituto a Palermo e, rispetto alle ultime emergenze, sia pure di tipo giornalistico e mediatico, sento il dovere di dire almeno una cosa. C’è un processo che si è svolto a Palermo, che si è concluso con sentenze divenute definitive, cioè con tre gradi di giudizio, con condanne e, quindi, con l'accertamento delle responsabilità penali, in cui è stata ricostruita in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi passaggi, anche geografici, quella che mediaticamente è stata definita la “trasferta” di Bernardo Provenzano nel territorio di Marsiglia per sottoporsi a un'operazione chirurgica».
Il senatore del M5S Mario Michele Giarrusso puntualizza: «Con la carta di identità di Troia » e l’aggiunto della Procura di Roma continua: «Sì, esattamente quella. Quella vicenda è stata ricostruita – passatemi il termine – minuto per minuto e tutti i soggetti coinvolti protagonisti che hanno commesso reati sono stati condannati con sentenza passata in giudicato grazie alle intercettazioni, alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e agli atti acquisiti con una rogatoria presso l'autorità giudiziaria di Marsiglia, alla quale ho personalmente partecipato.
Noi abbiamo sentito, con i colleghi francesi, i medici e il personale infermieristico. In più, abbiamo acquisito le dichiarazioni, estremamente collaborative, di una donna che è stata legata a uno degli uomini che avevano organizzato la trasferta e che ha curato e assistito personalmente, spacciandosi per una nipote, il signor Troia, in realtà Bernardo Provenzano, quando è stato ricoverato in terra di Francia.
Ebbene, nella ricostruzione – abbiamo sentito chi lo ha assistito, chi l'ha operato, chi ha fatto il prelievo; abbiamo potuto estrarre anche il profilo del Dna, perché all'epoca Bernardo Provenzano, quando abbiamo eseguito questa rogatoria, a giugno del 2005, era ancora latitante – di tutti questi fatti, dalla partenza, proprio con orario e data, al ritorno, con orario, data e riconsegna delle valigie di Provenzano, non c’è mai stata traccia di Attilio Manca.
Questo lo dico come dato di fatto. Mi sento in dovere di doverlo precisare».
PUNTI FERMI
La puntualizzazione di Prestipino Giarritta è importantissima perché mette tre (ulteriori, ennesimi) punti fermi:
1) quando era a Palermo seguì lui la vicenda delle trasferta francese di Provenzano per la quale, in giudicato definitivo, furono accertate a Palermo le responsabilità penali;
2) mai e poi mai è stata accertata traccia della presenza di Manca: in altre parole la vita dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto non ha mai incrociato, secondo le evidenze giudiziarie, la vita di binnu u tratturi
Ma c’è, appunto, una terza puntualizzazione indiretta che Prestipino Giarritta fa con quelle dichiarazioni: il dovere di precisare tutto questo rispetto alle «alle ultime emergenze, sia pure di tipo giornalistico e mediatico».
IL CLAMORE MEDIATICO
In effetti il clamore mediatico sul caso dell’urologo siciliano non si è mai spento, nonostante, già nel passato e a più riprese (pensiamo, a esempio alle dichiarazioni dell’allora capo della Procura nazionale antimafia Piero Grasso) gli inquirenti hanno sempre riaffermato che ogni passo necessario per la ricerca delle verità è stato fatto.
Eppure i giornalisti –sempre meno tollerati, senza distinzione, da politica, magistratura, società, Chiesa, società e chi più ne ha più ne metta – si ostinano a voler far luce, tra le tante vicende buie del nostro Paese, passate e presenti, anche sulla morte che colpì Attilio Manca, 34 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (luogo di massoneria sfrenata e vedremo poi l’importanza di questa puntualizzazione), tra i primi urologi italiani a operare il cancro alla prostata con il sistema laparoscopico.
Il suo cadavere fu rinvenuto a Viterbo, alle ore 11 del 12 febbraio 2004. Un uomo riverso sul letto. Per terra una pozza di sangue. Nel braccio sinistro due buchi. A pochi metri due siringhe da insulina.
Anche i magistrati di Viterbo sono intervenuti (indirettamente) sulla “questione Provenzano”, riscontrando che quella morte fu causata da overdose, causato dall’assunzione di eroina, alcol e tranquillanti.
L’ultimo giornalista che si è occupato di quella morte è il collega siciliano Luciano Mirone, che ha scritto il libro “Un «suicidio» di mafia – La strana morte di Attilio Manca” (Castelvecchi editore, 18,50 euro).
Leggiamo cosa riporta la quarta di copertina del libro: «Peccato che il giovane medico sia un mancino puro. Quei buchi dunq
ue si trovano sul braccio sbagliato. Tutti i suoi colleghi escludono che Attilio facesse uso di droga. Solo gli “amici” siciliani accusano il giovane, ormai morto, di essere un eroinomane. Troppe le cose che non tornano in questa storia. Per i familiari si tratta di un omicidio camuffato da suicidio. La morte del figlio, dicono, è da collegare con l’operazione di cancro alla prostata cui, nel settembre del 2003, è stato sottoposto a Marsiglia Bernardo Provenzano, capo dei capi di Cosa nostra, nascosto sotto falso nome e la cui latitanza – durata più di 40 anni –, secondo i magistrati di Palermo, fu favorita da pezzi dello Stato. Attilio avrebbe visitato e curato il boss in Italia, sia prima sia dopo l’intervento in Francia. E non è escluso che fosse presente anche in sala operatoria».
LE VERITA’
Ho sempre sostenuto che le verità giudiziarie, di cui avere sempre il massimo rispetto, non sono le uniche verità. Illuminante, a questo fine, ricordare quello che scrisse il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera uno dei più grandi intellettuali che l’Italia abbia avuto, Pierpaolo Passolini, a proposito delle responsabilità della classe dirigente sulla deriva politico/sociale nella quale l’Italia stava velocemente scivolando: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti». Forse, oggi, neppure Pasolini si potrebbe permettere queste riflessioni, alla luce dei continui attacchi che la libertà di opinione e di pensiero subiscono.
Ecco, molte volte ho ricordato su questo umile e umido blog, che il giornalismo d’inchiesta e la Giustizia viaggiano su due binari che sono spesso paralleli e qualche volta sovrapposti (meno di quanto dovrebbe essere). Ebbene, non resta che avere rispetto dell’una e dell’altra verità. Ritenere – e parlo in generale – che dietro le ricostruzioni giornalistiche ci siano complotti, trame, disegni, suggeritori, perversioni, vuol dire screditare il Giornalismo, quello con la G maiuscola. Fascinazioni? Beh quelle sono innegabili ma per un Giornalista con la G maiuscola le fascinazioni durano il battito di una ciglia.
Nel caso della morte di Attilio Manca, della quale spesso mi sono occupato anche io nel passato, prima su Radio24 e poi su questo spazio (con approfondimenti esclusivi di cui il libro non fa neppure cenno), bisogna avere il massimo rispetto anche delle ostinate ricostruzioni giornalistiche, al pari della disperata verità, intima e personale, di Angela Manca, mamma di Attilio, che non perde occasione per ripetere: «La morte di Attilio è avvenuta in una regione dove la mafia è sbarcata da anni e la massoneria comanda indisturbata».
Verrebbe da scrivere: «Io so. Ma non ho le prove». Di indizi, però, ce ne sono. E anche tanti.
r.galullo@ilsole24ore.com
4 – the end (si leggano anche le altre puntate http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/03/pignatone-finora-si-%C3%A8-ritenuto-le-mafie-fossero-un-problema-marginale-a-roma-e-rosi-bindi-porta-al-centro-del-problema.html;