Cari amici da due giorni sto sottoponendo alla vostra pazienza alcune riflessioni sull’eventuale ruolo della ‘ndrangheta nel rapimento e nell’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, il politico Dc trovato morto nel bagagliaio di una Renault 4 il 9 maggio 1978.
Riflessioni che scaturiscono dalla proposta di legge di istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sull’affaire Moro, avanzata pochi giorni fa da quasi tutti i partiti politici (rimando al post di due giorni fa e ieri in archivio).
Come abbiamo visto due giorni fa non sarebbe una novità, visto che nel 1983 una analoga Commissione consegnò un relazione di migliaia di pagine e allegati che si fermò di fronte ad un mistero di Stato che tale (ancora) rimane.
Se una nuova commissione dovesse vedere la luce, potrebbe dunque prendere in considerazione anche le mosse (vere o presunte) delle cosche calabresi nell’affaire Moro. Due giorni fa abbiamo visto il profilo dell’attività messa in campo dall’allora parlamentare della Dc Benito Cazora che, proprio con i calabresi, riuscì ad avere contatti che sembravano promettere bene ma comunque, anni dopo la morte dello statista leccese, la Commissione parlamentare non ritenne neppure di ascoltarlo.
Ieri – invece – abbiamo passato in rassegna la verità del boss, poi diventato collaboratore di giustizia, Saverio Morabito, sul ruolo delle cosche calabresi.
A questo punto – tratta dalla ricostruzione del processo Moro in primo grado (negli anni ci furono molti processi e diversi filoni) – vediamo come la sentenza ricostruisce l’intervento dell’onorevole Benito Cazora (il cui ruolo attivo abbiamo visto nel primo post del 7 agosto). Ci serve per riannodare, infine, il filo del discorso.
RICOSTRUZIONE SINTETICA
Ecco a voi.
«Così, il 26 settembre sempre la Digos riferiva che il precedente 8 maggio l'on. Cazora Benito aveva comunicato al Questore di Roma "di avere indicazioni da fornire – in relazione al sequestro dell'on. Moro".
Il mattino seguente il dott. Nicola Simone ed il dott. Gennaro Monaco si erano incontrati con il deputato della Dc, il quale aveva narrato di contatti avuti con individui appartenenti alla malavita che gli avevano segnalato "luoghi dove verosimilmente potevano essere nascosti" ostaggi.
"Tali luoghi erano stati ispezionati, senza esito, il 10 e l'11 maggio".
Interrogato dal giudice, l'on. Cazora sosteneva che alcuni giorni dopo l'eccidio aveva ricevuto una telefonata "da parte di ignoto" che gli aveva "espresso il desiderio" di vederlo, in quanto era in grado di "dare notizie utili alle indagini".
Egli aveva accettato l'invito e, secondo gli accordi, si era recato in Via Dell'Olmo accompagnato dal dott. Normanno Messina.
Qui era stato avvicinato da un uomo di circa 45 anni, il quale si era dichiarato disposto, per motivi "umanitari", a presentargli subito "un calabrese", contravventore all'obbligo del confino e "persona d'onore", che "aveva la possibilità di collaborare concretamente per salvare la vita di Moro".
Avendo il Cazora manifestato "disponibilità", l'interlocutore si era allontanato.
Trascorsi 20 minuti, era arrivato in macchina "il calabrese", che si chiamava in realtà "Rocco", il quale aveva promesso un suo intervento presso esponenti della criminalità comune milanese per raccogliere informazioni "ove era segregato l'on. Moro".
In cambio aveva "chiesto un aiuto tendente a regolarizzare la sua posizione con la giustizia, perché riteneva di essere ingiustamente perseguitato dalla legge".
Fissato un secondo appuntamento, l'on. Cazora aveva precisato a "Rocco" che "non c'era alcuna possibilità giuridica di consentirgli di circolare liberamente sul territorio nazionale" e quello, comunque, non si era tirato indietro, indirizzandolo ad "un detenuto che si trovava a Rebibbia proveniente dalle Carceri di Nuoro ove era stato insieme a Notarnicola".
L'on. Cazora aveva avuto un colloquio nella Casa di pena romana con detto soggetto, ma nel frangente aveva recepito esclusivamente generici suggerimenti che lo avevano, anzi, indotto ad interrompere la trattativa.
Però, domenica 7 maggio, essendo stato sollecitato da "Rocco" ad un nuovo urgente approccio, si era portato in Via della Camilluccia ed aveva trovato, contrariamente ai patti, "uno sconosciuto" che, richiamando il volantino delle Brigate Rosse che annunciava l'esecuzione della condanna a morte di Moro, si era "rammaricato" per "non avere potuto fare niente assieme ai suoi amici per salvare" lo statista e gli aveva confidato quelle "indicazioni" che poi erano state consegnate ai funzionari della Questura.
Questa "strana vicenda", malgrado gli sforzi degli inquirenti, non era suscettibile di sviluppi nel corso della istruzione».
SALTA FUORI IL NOME DI FONTI
A questo punto introduco il nome di Francesco Fonti. Costui – nato a Bovalino il 22 febbraio 1948 e morto il 5 dicembre 2012 – era un uomo legatissimo alle cosche Romeo e Nirta. Nel 1994 diventa collaboratore di giustizia (seppur tra mille avventure). Nel 2003 consegna all’allora sostituto procuratore nazionale antimafia Enzo Macrì un memoriale di 49 pagine.
Nel 2009 pubblica il libro “Io Francesco Fonti pentito di 'Ndrangheta e la mia nave dei veleni, Falco editore”.
Ebbene, pochi mesi di pubblicare il libro – per l’esattezza lunedì 28 febbraio 2009 alle ore 18.59 – Fonti recapita sulla mia mail la bozza del suo libro. Sorpresa nel vedere che un ampio capitolo era dedicato al rapimento Moro. Ne scrissi su questo blog, d’accordo con Fonti, il 20 settembre 2009, in prossimità dell’uscita del suo libro, mantenendo fino a quel momento il patto di riservatezza per quel che era contenuto. Nell’artico
lo scrissi che c’era la sua parola contro il resto del mondo.
Prove: zero. Possibilità di contraddittorio: zero. Testimoni a favore: zero. Testimoni a sfavore: tutti quelli che volete, a partire dalla sua stessa vita, redenta, ancora una volta, solo sulla sua parola. Supposizioni: tante. Incroci di verità: molti.
Come questa, sconvolgente, storia che vi sto per raccontare e che non ha testimoni a favore di Fonti. Anche lui morto in una lunga catena di morti che renderanno praticamente impossibile il lavoro della istituendo nuova Commissione parlamentare. La sua parola e i suoi racconti, ripeto, contro il resto del mondo.
E’ la storia di Francesco Fonti che un giorno incontra sulla sua strada la vita di Aldo Moro. E’ la sua storia, chiaro.
Vero è anche che – quando ne scrissi e dopo un paio di giorni ne scrisse anche l’Espresso – né il Parlamento, né il Governo, né il Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza) né la Commissione parlamentare antimafia ritennero di ascoltarlo.
L’AFFAIRE MORO
A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro dell’onorevole Moro, Fonti viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma in quanto dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti – erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini (morto a Ravenna il 5 novembre 1989).
Fonti andò a Roma e alloggiò all’hotel Palace di via Nazionale dove incontrò vari agenti dei servizi segreti tra i quali uno che avevo conosciuto in precedenza tramite Guido Giannettini con il nome di “Pino” (che entra anche negli affondamenti delle navi dei veleni). Incontrò un non meglio identificato “cinese” che risultava essere un uomo della banda della Magliana e diversi calabresi che abitavano a Roma.
AL CAFE’ DE PARIS
Fonti affermò soprattutto di aver incontrato il segretario Zaccagnini al “Café de Paris” di via Veneto, il 23 luglio 2009 sequestrato (e confiscato nel 2011) perché riconducibile, secondo la Dia, la Gdf e la magistratura, alla cosca Alvaro di Sinipoli (Rc).
Zaccagnini, che ufficialmente difese sempre la linea della fermezza dello Stato, nei ricordi di Fonti, era “schifato” da quell’incontro. Disse infatti Zaccagnini, secondo la ricostruzione di Fonti: «…è un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi».
Prima di andarsene, disse: «…non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino».
LA RISPOSTA NELLE PAROLE DI FONTI
Fonti fu schietto e diretto, cercando però di strappare un contatto diretto con Moro: «Dottore, ci siamo già attivati per reperire informazioni adatte e che possano servire a porre fine a questa brutta storia, sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose e Le saranno comunicate da me stesso».
Fu l’unica volta, però, che i due si incontrarono, nonostante Moro dal carcere in cui era stato segregato si rivolse per lettera a Zaccagnini, implorandolo di salvarlo.
Fonti incontrò (almeno questo è quanto dichiarò) allora il deputato dc Benito Cazora, morto nel 1999.
Fonti, secondo il suo racconto, incontrò anche il romano Domenico Balducci, pezzo da ‘90 della Banda della Magliana e Giuseppe Santovito, capo del Sismi dal 1978 al 1981, che aveva avuto un ruolo di primo piano nelle indagini sul sequestro Moro.
Santovito è morto il 5 febbraio 1984. Balducci fu ucciso a Roma nel 1981.
Fonti – sempre secondo le sue dichiarazioni – incontrò anche Natale Rimi, boss palermitano di Coda Nostra (arrestato in Spagna il 19 febbraio 1992) e l’appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, già addetto all’ambasciata Italiana di Beirut, il quale gli disse che il colonnello del Sismi Stefano Giovannone, sigla in codice G216, gli aveva raccomandato vivamente di salvare Moro a tutti i costi.
Il colonnello Giovannone aveva ricoperto l’incarico di capocentro del Sismi a Beirut dal 1972 al 1981. Era conosciuto tra le barbe finte come “Stefano d’Arabia” o “Il Maestro”.
Aldo Moro, di cui Giovannone era un fedelissimo, in due lettere scritte durante la prigionia, aveva auspicato l’intervento del colonnello Giovannone per risolvere la «delicata faccenda» del suo rapimento.
Nel 1985 il giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni fece arrestare Giovannone con l’accusa di aver favorito il traffico d’armi fra l’Olp e le Brigate rosse.
Giovannone morì il 17 luglio 1985 in libertà provvisoria dopo essere stato agli arresti domiciliari, proprio per le sue precarie condizioni di salute. Anche Santovito morì di morte naturale. L’inchiesta del giudice Mastelloni verrà fermata dal Governo che sulla vicenda porrà il segreto di Stato.
Nel 1995 si suicidò anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Il suo codice era G219. Ferraro era stato subalterno di Giovannone, ed era stato in Somalia.
CAZORA ERA L’UNICO A VOLERE MORO LIBERO
E concludiamo da dove siamo partiti il 7 agosto.
Per Fonti l’unico che agiva veramente per la salvezza di Moro era il deputato Benito Cazora.
Il 10 aprile 1997 Cazora, a Perugia, dinanzi alla Corte di assise dove si svolgeva il processo a carico dei presunti autori dell’omicidio di Mino Pecorelli, l’ex parlamentare dc, riferendosi all’intervento della ’ndrangheta calabrese nelle ricerche della prigione brigatista dov’era rinchiuso Aldo Moro nella primavera del 1978, affermò: «…tramite l’interessamento del segretario di Aldo Moro, Sereno Freato, riuscimmo a far trasferire dal carcere dell’Asinara a quello di Rebibbia un parente di Rocco (scoprimmo che era una persona che faceva di cognome Varone ed era il fratello di Rocco)…. Mi portarono sulla Cassia, all’altezza dell’incrocio con via Gradoli, e mi dissero: ‘Questa è la zona calda’. Riportai l’informazione al questore di Roma, il quale però mi telefonò riferendomi di aver fatto controllare ‘porta a porta’ via Gradoli senza trovare traccia del covo delle Br»".
Il fratello di Rocco Varone era quel Salvatore Varone che aveva incontrato più volte personaggi politici affermando che «…posso dare informazioni sul covo dove nascondono Aldo Moro perché i calabresi a Roma sono 400.000 e possono controllare il territorio».
Fonti raccontò di aver soggiornato circa due settimane a Roma raccogliendo un’enorme quantità di informazioni, incontrando personalmente anche uno dei massimi esponenti di Cosa Nostra, Stefano Bontate, «il quale – scriveva Fonti – non sembrava affatto un mafioso, bensì un rispettabile uomo d’affari. Solo gli occhi, chi aveva la sfrontataggine di fissarlo ed io l’ebbi, tradivano la sua crudeltà ed il suo essere il “Capo”. Con me fu molto gentile e disponibile anzi confidenziale, arrivando anche a criticare qualcuno dei “capi” della “ndrangheta, poi mi disse “ciccio queste parole le tieni per te, va bene?».
Fonti rivide Bontate (morto a Palermo il 23 aprile 1981) in altre occasioni, anche a Milano, quando gli riferì che stava entrando in società nelle televisioni private.
IL RIENTRO A SAN LUCA
Fonti rientrò in Calabria e fece “rapporto” a San Luca. Successivamente seppe che il suo era stato un lavoro fruttuoso ma vano in quanto erano arrivate indicazioni precise da Roma di «farci i fatti nostri».
Fonti, nelle sue peripezie nelle carceri italiane, arriva a incontrare in carcere, durante un corso di computer, Mario Moretti, che era stato condannato per l’uccisione dell’onorevole Moro. Per sua stessa ammissione aveva ucciso lui l’uomo politico.
«Notai subito – racconta Fonti – che Moretti aveva un trattamento speciale e che era libero nei movimenti, lui stesso mi disse che ogni mese riceveva un assegno dal Ministero e che gli era stata garantita a breve la semilibertà. Alla mia domanda del perché di questo trattamento: in fondo era stato condannato a parecchi ergastoli e tutti pensavamo che non avrebbe più visto la libertà. Lui rispose sornione “se non mi fanno uscire svelo tutti gli altarini, conviene a tutti i politici che io resti muto». Vero? Falso?
Durante la detenzione Fonti non si fece mancare nulla, compresi gli affari. «Furono fatti tanti affari di smistamento di droga tra le diverse famiglie – scrive nel suo memoriale consegnatomi che poi divenne un libro – si sono fatte delle alleanze con turchi e con qualche colombiano che abbiamo conosciuto nel carcere. Parlo di traffici per centinaia di chili che transitavano nel Milanese. Anche a Opera c’erano delle guardie che si lasciavano comprare e noi li usavamo come postini».
Questo il racconto di un uomo che forse la Commissione parlamentare sull’affaire Moro, se mai vedesse la luce, dovrebbe comunque tenere in considerazione.
3 – the end (le precedenti puntate sono state pubblicate il 7 e 8 agosto)
r.galullo@ilsole24ore.com