Commissione d’inchiesta sul caso Moro/1 L’allarme ignorato del parlamentare Cazora sul ruolo della ‘ndrangheta

Quando in Italia la politica non sa bene come impiegare il tempo in cose inutili (guai a farne di utili) propone commissioni d’inchiesta. E così, pochi giorni fa tutti i partiti hanno firmato una proposta di legge per istituire una (nuova) commissione d’inchiesta parlamentare sull’affaire Moro, il politico Dc trovato morto nel bagagliaio di una Renault 4 il 9 maggio 1978. Sono passati 35 anni. Ai più giovani quel nome dirà poco o nulla ma tutti quelli (almeno) della mia generazione ricordano perfettamente dov erano il giorno del rapimento e ricordano perfettamente la misura di quello statista. La sua morte fu (è) l’ennesimo mistero di Stato.

Sia chiaro, non che non ci sia da indagare su quel rapimento e sulla morte di Aldo Moro e degli uomini che gli facevano da scorta (trucidati il 16 marzo 1978). Anzi.

A differenza di alcuni commentatori politici che si sono dimostrati indifferenti alla necessità di provare almeno a fare un po’ di luce, credo che ci sia ancora moltissimo da capire.

La politica, oggi, scatta sull’abbrivio del racconto di un artificiere intervenuto sul posto, Vitantonio Raso, che ha scritto un libro, La bomba Umana, nel quale dà dettagli che modificano la storia, per come nota finora. Lui – che all’epoca era sergente maggiore – e il suo diretto superiore, Giovanni Chirchetta, spostano l’ora del ritrovamento dell’auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.30 la telefonata delle Br che annunciava l’uccisione di Moro e il luogo, Via Caetani, nel cuore di Roma, a due passi dalle sedi di Dc e Pci, dove trovarne il corpo. Torna inoltre d’attualità la presenza, sul posto, dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga.

Credo che questo libro – chissà perché i grandi misteri d’Italia vivono di racconti e memorie postume di decenni – sia una miccia necessaria per riaprire il caso in Parlamento ma – al contempo – penso che nulla verrà scoperto (qualora la Commissione davvero di insediasse), perché quell’affaire deve restare sepolto nel pozzo cieco della democrazia italiana. A maggior ragione ora, momento in cui il compromesso storico – che batteva nel cuore dei partiti nel giorno in cui fu rapito Moro – è diventato a distanza di decenni altro, vale a dire un matrimonio dagli incerti interessi (non certo amore) tra Pd e Pdl.

L’INSIPIENZA DELLO STATO

Eppure a riaprire davvero il caso basterebbero due sole cose: 1) l’insipienza (voluta?) dello Stato nel cercare di giungere al covo in cui era recluso Moro e 2) alcuni memoriali, verbali, storie, interrogatori e dichiarazioni (precedenti a quello dell’artificiere Raso) in cui si insiste sulla presenza attiva della ‘ndrangheta nell’affaire Moro.

Non mi avventuro in ragionamenti politici per ragionare sull’incapacità dello Stato di liberare uno dei suoi uomini migliori ma ripropongo – tratto dalla relazione di minoranza in Parlamento della “Commissione Moro”, volume II, pagine 402 e 421, autore il grande scrittore Leonardo Sciascia eletto nel 1979 nel Parlamento tra le fila dei radicali – i numeri nudi e crudi delle indagini che portarono al flop delle ricerche : 72.460 posti di blocco (6.296 nei pressi di Roma); 37.702 perquisizioni domiciliari (6.933 a Roma); 6.413.713 persone controllate (167.409 a Roma); 3.383.123 ispezioni di autoveicoli (96.572 a Roma).

UNA COMMISSIONE CI FU

Molti dimenticano, dunque, che una Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, ci fu. Venne istituita nell’VIII legislatura con la legge 23 novembre 1979 n.597 e nel 1983 consegnò una relazione di maggioranza e ben quattro di minoranza (del Movimento sociale italiano, del Partito liberale italiano, del Partito Radicale e della Sinistra Indipendente) . La documentazione allegata alle relazioni – centinaia e centinaia di pagine – della Commissione consta di 130 volumi e 2 tomi di indici.

Pensate voi che opera monumentale che – di fatto – a nulla approdò. Misteriose furono le cause di quel rapimento e di quelle morti e tali rimasero.

Ma nella relazione di maggioranza si trova – all’interno del capitolo V – un interessantissimo paragrafo intitolato: “I contatti dell’onorevole Cazora” che, per la prima volta, chiama in causa il ruolo della ‘ndrangheta nell’affaire Moro.

Tra poche ore – in un nuovo articolo – tornerò sulla eventuale (e tutta da provare) mano delle mafie nel caso Moro ma partiamo proprio dalla ‘ndrangheta perché ad aprire questo scenario fu un parlamentare da tutti stimato che non aveva alcun bisogno di attirare su di sé riflettori.

L’INTERMEDIAZIONE

Benito Cazora, siciliano di nascita e romano di adozione, è il parlamentare morto nel 1999.

Cazora è stato sempre citato in relazione a due episodi: una segnalazione che ricevette con riferimento alla zona di via Gradoli indicata come "zona calda" nella quale concentrare le ricerche e la questione delle foto scattate dal meccanico Gerardo Nucci, che abitava in via Fani, subito dopo la fuga del commando, che avrebbero potuto immortalare persone riconducibili alla malavita calabrese (foto che, consegnate al magistrato Luciano Infelisi, non saranno mai più ritrovate).

Cazora fu intervistato nel giugno 1997 dalla rivista Area alla quale confermò di essere stato a un passo dalla svolta e di aver informato più persone del covo in cui Moro era segregato. Già il 15 ottobre 1993, però, intervistato dal Tg2 Cazora ricordò i contatti con la malavita calabrese, la quale gli preannunciò anche il falso del ritrovamento presso il Lago della Duchessa. Molte altre volte Cazora approfondì la questione con i media. Invano. A lui la liberazione di Moro stava davvero a cuore.

Marco Cazora, il figlio di Benito, il 16 febbraio 2011 scriverà: «Nel 1978 mio padre Benito Cazora relazionò tutti riguardo i suoi tentativi di salvare la vita di Aldo Moro come le carte dimostrano. Sulla base di quelle carte e sui racconti di mio padre, che dimostrò di essere stato il primo ad individuare il covo di Via Gradoli e come ultimo aver notiziato Cossiga della prevista morte di Moro 2 giorni dopo, come tristemente avvenne fu ascoltato allora dallo stesso Imposimato. Ciò detto chiedo come mai ascoltate tali verità non lo inserì nell'elenco dei testimoni? Fu un atto di malafede o sempre di totale incapacità? »

Solo per citare un altro esempio della credibilità di cui vantava Cazora, riporto uno stralcio di un articolo comparso il 12 marzo 2003 su Famiglia Cristiana, nel quale l’articoli
sta riporta: «”Bene informato oppure no, l’onorevole Cazora fu protagonista di un episodio legato all’ultima fase del sequestro. «Domenica 7 maggio 1978», conclude Sergio Flamigni (parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, membro delle Commissioni sul caso Moro, P2 e antimafia, tra i più seri analisti del caso Moro e autore nel 1988 di un libro base, La tela del ragno. Il delitto Moro, ndr) , «Cazora comunicò all’allora questore di Roma De Francesco che, secondo una sua fonte, due giorni dopo sarebbe stato fatto ritrovare il corpo di Aldo Moro. La reazione del questore fu tranquillizzante. A lui, infatti, risultava, invece, che il 9 maggio la vicenda si sarebbe sì conclusa, ma con la liberazione dell’ostaggio. So per certo», conclude Flamigni, «che anche Francesco Cossiga quel 9 maggio, al Viminale, aspettava una telefonata con la buona notizia. Che non arrivò mai”».

IL PARAGRAFO BOMBA

Vi riporto ora fedelmente il paragrafo “I contatti dell’onorevole Cazora” invitandovi, fin da subito, a soffermarvi sull’ultima frase ma invitandovi altresì a leggere con molta attenzione tutto.

«Tra i tentativi per stabilire un contatto con i rapitori dell'onorevole Moro anche attraverso criminali comuni ed esponenti della malavita, va ricordato quello che ha visto impegnato l'onorevole Cazora. Questi, sollecitato alcuni giorni dopo il sequestro dalla telefonata di uno sconosciuto che gli prometteva notizie utili alle indagini sul sequestro dell'onorevole Moro, si incontrava con l'autore della telefonata, che lo assicurava di voler collaborare per fini umanitari; a questo scopo gli avrebbe presentato un calabrese che aveva la possibilità di adoperarsi concretamente per salvare la vita di Moro. Lo stesso giorno l'onorevole Benito Cazora si incontrava con il calabrese, il quale si presentava come "Rocco" ed asseriva di poter contattare elementi della malavita milanese attraverso i quali si potevano attingere notizie utili sul sequestro e sulla prigione di Moro. Per fare questo il calabrese – che era venuto meno agli obblighi del confino – aveva bisogno di circolare liberamente senza il rischio di essere arrestato. Come contropartita, in caso di esito positivo, chiedeva solo che venisse regolata la sua posizione con la giustizia.
L'onorevole Cazora consultava alcuni funzionari del Ministero dell'interno, che però davano risposta negativa. Il calabrese si dichiarava disposto a collaborare lo stesso, ed indicava il nome di un detenuto di Rebibbia tale Barone – che era stato in contatto con Sante Notarnicola.
L'onorevole Cazora incontrava Barone a Rebibbia, e questi gli indicava una serie di persone alle quali rivolgersi. Cazora si rendeva allora conto della inutilità delle notizie ricevute in quanto, a suo avviso, le persone indicate non sarebbero state disposte a collaborare. Si rifiutò quindi di rispondere a successive telefonate del calabrese.
Gli rispose tuttavia il 6 maggio, e prese appuntamento per il giorno successivo. Nel luogo dell'appuntamento trovava altra persona sconosciuta, che gli espresse il rammarico per non aver potuto far niente per salvare la vita di Moro. Alla domanda di Cazora, tuttavia, lo sconosciuto indicò una serie di luoghi nei quali poteva trovarsi la prigione di Moro. La mattina dell'8 maggio, alla presenza del sottosegretario Lettieri, l'onorevole Cazora portò le indicazioni al Questore di Roma; ma non venne trovato nulla di consistente in quelle località.
Negli ultimi contatti con il calabrese, questi affermò, tra l'altro, che alcuni rappresentanti del Psi si erano messi in contatto con elementi di sua conoscenza per ottenerne la collaborazione per la liberazione del sequestrato.
Anche il dottor Freato ha fatto riferimento all'iniziativa dell'onorevole Cazora. Egli gli fece incontrare una persona la quale affermava che si sarebbero potute acquisire informazioni da alcuni detenuti, che però dovevano essere trasferiti. Furono interessati al provvedimento il Ministro Bonifacio e il sottosegretario Dell'Andro; ma sopravvenne il tragico epilogo, e non se ne fece più niente.
Tenuto conto che l'interessamento dell'onorevole Cazora si riferisce a circostanze tutte vagliate dagli inquirenti, e che le iniziative di esponenti del partito socialista sono state approfondite con la diretta collaborazione degli interessati, la Commissione non ha ritenuto necessario ascoltare l'onorevole Cazora
».

Quindi anche la Commissione sul caso Moro decise di non ascoltare l’onorevole Cazora.

La Commissione decise di non ascoltare Cazora nonostante nella sterminata documentazione che arricchisce l’affaire Moro compaia anche la telefonata che potete leggere sotto, tra il segretario particolare di Aldo Moro, Sereno Freato e l’onorevole Cazora.

LA TELEFONATA

Ci sarebbe la foto di un uomo ripreso in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 che non si ritrova negli atti dell'istruttoria.

Al numero 109 di Via Fani, uno spettatore casuale – secondo le ricostruzioni giornalistiche si tratta di Gherardo Nucci – scatta dal balcone di casa sua una dozzina di fotografie. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura dalla moglie, una giornalista dell’agenzia Asca, non si saprà più nulla.

Però quelle foto sembrano entrare di prepotenza nella breve telefonata tra Freato (la cui utenza era sotto controllo) e Cazora.

Cazora: Un'altra questione, non so se posso dirtelo.

Freato: Si, si, capiamo.

Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo.

Freato: Quelle del posto, lì?

Cazora: Si, perchè loro… [nastro parzialmente cancellato]…perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù.

Freato: E' che non ci sono… ah, le foto di quelli, dei nove

Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio… noto a loro.

Freato: Capito. E' un po’ un problema adesso.

Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?

Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire.

Cazora: Dire al ministro.

Freato: Saran tante!

Le preoccupazioni, quel giorno, erano tant
e e anche un bambino capirebbe che i due parlavano delle foto scattate sul posto il giorno dell’agguato e di un personaggio fotografato che ai calabresi era noto.

IL TEMPO PASSA

Il tempo passò – dopo quella monumentale opera predisposta – ma il fantasma di Moro continuò ad aleggiare sulla politica italiana e mentre il fratello di Aldo, Alfredo Carlo, per anni presidente del Tribunale dei minorenni di Roma, continuava a dire che su quel delitto annunciato c’erano ombre e quasi nessuna luce, la stessa politica tormentata continuava (e, come possiamo vedere, continua) a girare intorno alla vicenda.

Il 26 aprile 2001 alle Presidenze delle due Camere, i commissari della “Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, presentano le decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti.

Nel Doc. XXIII, n. 64, volume primo, tomo VI, si legge: «Ricordiamo che nel 1978 alcuni calabresi accompagnarono l'onorevole Benito Cazora a fare un giro in macchina, poi si fermarono e gli dissero: «questa è la zona». Errore: non vi si trovava recluso Moro, ma in via Gradoli alloggiava però Mario Moretti. Sempre su via Gradoli: il 2 aprile 1978 nel corso di una famosa seduta spiritica in casa del professor Alberto Clò, a Bologna, in cui erano presenti persone del mondo universitario, emerse proprio la parola «Gradoli» e persino il numero 96. Le ricerche di Moro vennero dirottate non già nella strada romana ma nel paese di Gradoli, e per giunta vennero ampiamente pubblicizzate cosicchè Moretti apprende in tv che il suo covo era stato scoperto. Nessuno si accorse che a Roma esisteva una «via Gradoli», non gli uomini della Democrazia cristiana, non i servizi di sicurezza militari e civili, non le forze di polizia nè i Carabinieri. Per quanto ciò abbia la stessa credibilità della seduta spiritica, la Commissione prende atto di queste affermazioni.

Ma non basta: il capitano del Sid (gli allora Servizi di sicurezza della difesa, ndr) Antonio Labruna rivelò che un tale Mario Puccinelli, da Francoforte, gli telefonò per dirgli che «in via Gradoli c è chi ha ‘rapito Moro» (G.M. Bellu, Moro tenuto prigioniero nel «palazzo dei servizi», Repubblica 5 maggio 1998). Come Cazora, anche il signor Puccinelli e Labruna sono deceduti. Gli svantaggi di indagare venti anni dopo i fatti.

…………………..

Ancora al processo di primo grado, nel 1982, i coniugi che abitavano nell'appartamento adiacente al covo, dichiarano di aver sentito di notte un ticchettio, stavolta di macchina da scrivere. Ricordiamo ancora che il 10 aprile 1997, testimoniando al processo Pecorelli, a Perugia, l'ex parlamentare democristiano Benito Cazora racconta che già una settimana dopo il sequestro di Aldo Moro, indicò all'allora questore di Roma, Parlato, l'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli; i controlli compiuti dalla polizia dettero però esito negativo».

Quindi, nel 2001, il racconto di Cazora torna alla ribalta e  -badate bene – quel nome “Gradoli” risalta prepotentemente alla ribalta per la sua importanza e quel nome e quella via è presente nel racconto di Cazora al netto di imperfezioni su chi fosse in quella via. Se – a distanza di 23 anni – una Commissione parlamentare dà credito al racconto di alcuni calabresi che portarono Cazora in Via Gradoli vuol allora dire che i contatti tesi alla salvezza di Moro, del parlamentare, non erano certo inattendibili.

ALTRA TAPPA

Il 20 gennaio 2006 alle presidenze dei due rami del Parlamento venne consegnato il Documento XXIII n.16 che altro non era che la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. Relatore era il senatore Roberto Centaro. Due tomi di oltre 2mila pagine complessive.

Nel secondo tomo, a pagina 881 si legge: «Un ulteriore tentativo di utilizzare la criminalità organizzata – in questo caso la ’ndrangheta – per liberare Moro era riferibile alle attività Benito Cazora, parlamentare della Dc e del suo referente Salvatore Varrone, che avrebbe promesso di fornire informazioni in cambio di agevolazioni per se´ e per i suoi familiari. Il Varrone avrebbe portato il Cazora sulla Cassia all’altezza di via Gradoli, dicendo che quella era l’area in cui si trovava il covo in cui era sequestrato l’on. Aldo Moro ma la notizia passata al questore De Francesco non aveva conseguito risultati utili.

Cazora aveva inoltre ricevuto la contrarietà dell’on. Francesco Cossiga a continuare nelle sue ricerche. Da talune testimonianze sembra che Frank Coppola si sia interessato anche di dissuadere uno dei fratelli Varone a collaborare nelle ricerche di Moro poiché quest’ultimo “doveva morire”».

E qui si aggiunge – alla consistenza del racconto – un fatto nuovo: la comunicazione (ignorata) delle informazioni alla Questura e la contrarietà dell’allora ministro Cossiga.

Per il momento mi fermo qui ma a breve torno con una nuova puntata sull’affaire Moro e l'eventuale ruolo delle mafie (che lasciano comunque il passo alla ‘ndrangheta)

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com