Anche Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro non ha dubbi: il gotha massopolimafioso che i suoi ex colleghi della Dda di Reggio Calabria stanno portando alla luce in riva allo Stretto, è un modello replicabile ovunque. Non solo in Italia, visto che nord e sud, est od ovest del mondo, come ama ricordare il pm, sono solo punti cardinali che non possono certo ingabbiare i confini virtuali delle mafie.
Quei mammasantissima invisibili e riservati – oggi alle 21.15 al centro della puntata di Presa Diretta su Rai3 – che regolano la vita economica e sociale (anche) della Calabria, fanno parte, ha detto Gratteri «di un modello replicabile ovunque». E c’è da crederci, visto che non lo ha detto a Reggio Calabria né a Catanzaro, a Cosenza o Crotone (dove, peraltro, quando lo si ricorda, gran parte dell’opinione pubblica si gira dall’altra parte fischiettando) ma sabato 23 settembre a Bologna nel corso dell’incontro “Imprese di ‘ndrangheta e concorrenza al nord: l’evoluzione della specie”, che ho moderato nell’ambito di InsolvenzFest organizzato da Oci (Osservatorio sulle crisi d’impresa).
C’è da crederci anche perché Gratteri ha messo in fila gli anelli di una catena logica che certifica l’evoluzione della specie in quei mammasantissima che possono apparire una sorpresa solo agli occhi di chi opera in malafede. «Dagli anni 70 – ha affermato in una sala stracolma soprattutto di giovani e giovanissimi – tutti i figli dei capomafia sono andati all’Università ed il livello della mafia si è dunque innalzato. Così come si deve innalzare la sfida dello Stato. La sfida degli inquirenti e investigatori è andare oltre quel che appare. La polizia giudiziaria deve rischiare ed andare un po’ più in alto della nostra testa».
Parole importanti e condivisibili che piombano non solo sul silenzio omertoso che ammanta Reggio e la Calabria dall’indagine Meta in avanti ma anche su quello che avvolge la politica italiana. Un silenzio che Presa Diretta questa sera proverà a scuotere con immagini e protagonisti. Una forza d’urto che solo la tv può avere sulle coscienze mitridatizzate degli italiani.
Questo umile e umido blog – anche a costo di soffrire devastanti attacchi della parte marcia dello Stato – da dieci anni esatti a questa parte cavalca l’onda delle (pochissime) indagini che in Italia provano ad andare “oltre” l’iconografia della mafia tutta coppola e lupara, cannoli e soppressate. Ben vengano dunque i riflettori e le inchieste delle tv private e pubbliche che (non è certo il caso di Riccardo Iacona e del suo staff) per anni hanno dormito soporose ai piedi della politica, parte della quale alimenta quel circuito di mammasantissima riservati e invisibili che stanno ingabbiando la democrazia italiana.
Non so se i colleghi Danilo Procaccianti e Raffaella Pusceddu questa sera useranno questa metafora ma il gotha della massopolimafia è un perverso regolatore di tensione della democrazia italiana. Una cupola in grado di miscelare frequenza e corrente a proprio uso e consumo.
Ben vengano dunque le telecamere di Presa Diretta nel momento in cui, il 7 agosto (mi auguro che la trasmissione abbia fatto in tempo a registrarne il dato) il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria nel confermare l’ordinanza emessa a carico di Paolo Romeo (già condannato con sentenza passato in giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa e, forse per questo, servito e riverito dai cosiddetti salotti della Reggio bene) dopo il rinvio disposto dalla Cassazione, ha stabilito che ci sono tutti gli elementi per «affermare l’esistenza dell’autonomo organismo associativo posto in posizione di vertice e costituito dalla cupola riservata della ‘ndrangheta».
Per i magistrati della sezione del Riesame del tribunale – tutte donne, Tiziana Drago, Erica Passalalpi e Angela Giunta – «le condotte di cui si è reso protagonista, attraverso una capillare rete di rapporti e relazioni che hanno consentito allo stesso di dirigere e gestire la vita politica della città, sono chiara espressione della posizione apicale rivestita non solo e non tanto nell’ambito della cosca De Stefano quanto, ancora e a maggior ragione, nell’ambito della struttura apicale riservata che dirige strategicamente la ‘ndrangheta». Un ruolo – spiega il collegio e ha ricordato la collega Alessia Candito del Corriere della Calabria e collaboratrice per Repubblica – che condivide con l’avvocato Giorgio De Stefano. Entrambi – si legge nelle motivazioni – «sono realmente sovraordinati rispetto alla ‘ndrangheta operativa, con la quale interagiscono». Per i giudici, «sono i promotori, i dirigenti e organizzatori della componente riservata della ‘ndrangheta, forti del ruolo ereditato dopo la morte di Giorgio e di Paolo De Stefano» e rappresentano «il punto di collegamento fra mondi riservati, quale quello massonico e quello mafioso».
Ma davvero vogliamo credere che le mafie siano (ancora) coppola e lupara, cannoli e soppressate? Personalmente non l’ho mai neppure pensato e credo che un braccio armato criminale abbia sempre accompagnato il gotha di menti raffinatissime fin dalla nascita delle mafie – si chiamino esse Cosa nostra o ‘ndrangheta – ma sempre meglio tardi che mai provare giudiziariamente e processualmente ad andare “oltre” i dati ormai acquisito dal maxiprocesso a Cosa nostra e da Crimine/Infinito. Si chiama sistema criminale integrato e qualche anno fa Antonio Ingroia prima e Roberto Scarpinato poi provarono a farlo venire a galla in Sicilia remando contro una corrente alla quale era impossibile resistere. Oggi, sempre in Sicilia, ci riprovano Nino Di Matteo e il pool ancora a Palermo ma interessanti indagini ci sono anche a Caltanissetta, Catania e Messina. In Calabria non c’è solo Reggio a muoversi. Anche la Procura di Catanzaro sta affondando sull’acceleratore (ma il meglio, qui, deve ancora venire).
Ben venga anche la spinta della Commissione parlamentare antimafia come dirà questa sera la presidentessa Rosy Bindi che con il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo sarà al centro della puntata di Presa Diretta.
«Non siamo ancora alle conclusioni definitive – dirà Bindi – ma i primi risultati del nostro lavoro dimostrano che tra i nominativi degli iscritti alle logge massoniche della Calabria e della Sicilia, ci sono alcuni condannati per 416 bis, quindi per associazione mafiosa, e un numero considerevole di situazioni giudiziarie in itinere, imputati, rinviati a giudizio, sia di reati di mafia che di quelli che comunemente chiamiamo i reati spia di comportamenti mafiosi o comunque di collusione con la mafia. Stiamo parlando di logge regolari».
Che sia una forzatura o meno (visto che l’analisi del Gico della Gdf richiederà almeno altri 20 giorni e che l’analisi dei dati trasmessi dalla Dna deve essere anch’essa ancora completata) lo vedremo a breve ma intanto è decisivo che si alzi quel livello di attenzione dello Stato che, fino a poco tempo fa, era prerogativa di pochi Servitori dello Stato. Alcuni di loro ci hanno perso la vita e non lo ricorderemo mai abbastanza.
r.galullo@ilsole24ore.com