Chi segue quanto scrivo da anni sa che considero la Calabria una regione persa e, al tempo stesso, fuori dai radar di ogni politica governativa (locale e nazionale) e parlamentare. Le due cose, badate bene, sono complementari. A meno che per politica governativa e parlamentare non si intenda quanto, da decenni, è caro ai politicanti del sud di ogni sapore, odore, colore e livore: vale a dire mance distribuite a pioggia per negare (volontariamente) ogni forma di reale sviluppo socioeconomico e distribuire briciole ai clientes.
Un popolo affamato fa la rivoluzion ma – attenzione – il ritornello della “pappa col pomodoro” non vale per una quota molto ampia del popolo calabrese che, seppur alla fame, è sempre più avvinghiato come l’edera alla corruzione politica e alla malavita mafiosa elette a genere. Sì, il genere che permette se non di vivere almeno di sopravvivere pur nella consapevolezza che si precipita, tutti, sempre più in basso. E anche alla luce di quanto scriverò e leggerete sul Sole-24 Ore di lunedì 12 dicembre avrete modo di rendervi conto di quanto ormai al sud la situazione sia degenerata e non più – a modesto avviso di questo umile e umido blog – recuperabile.
Orbene, queste riflessioni che riassumo – regione fuori dai radar della Politica e avvitata su se stessa verso il lo schianto – mi son tornate alla mente leggendo i risultati del referendum. In Calabria si è toccato il fondo: ha votato un calabrese su due. E badate che migliaia di votanti sono stati – come nel film Cetto Laqualunque – trasportati a cadavere ancora fumante ai seggi dai galoppini della politica schierata per il sì che, nonostante tutto, ha raccolto appena il 31% dei voti. E badate ancora bene che il Governo, anche attraverso il suo (ex?) conducator fiorentino, non solo si era speso nei mesi scorsi in prima persona nel raccontare quanto fossero prossimi gli investimenti in quella terra ma poteva anche contare su un plotone di renziani che partono dal Governatore Mario Oliverio e finiscono con il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà. Entrambi ama(va)no posar sorridenti, garruli e giulivi in foto con lui. Selfie o non selfie.
Comunque la vogliate girare, infatti, la Calabria non ha votato si o no ad una proposta di riforma costituzionale (cosa volete che freghi, tanto per fare un esempio, ad un calabrese dell’abolizione del Cnel o della rivoluzione al Senato se, solo per citare un altro esempio, non sa come pagarsi le cure mediche private visto che la sanità è in gran parte allo sfascio!) ma ha votato si o no su quanto finora questo governo (nazionale e locale) si è speso per cercare di colmare il gap con buona parte del Paese, che in confronto il ponte sullo Stretto è un cerotto virtuale tra due realtà che stan sparendo.
Ebbene, persino nei Comuni di Reggio Calabria e di San Giovanni in Fiore (da cui proviene Oliverio) il si ha perso e ha stravinto il no. A Reggio Calabria il sì ha toccato quota 30,45% e a San Giovanni in Fiore il si ha raggiunto il 43,99 per cento.
Una debacle totale: nel numero degli elettori andati ai seggi (ripeto: uno su due, con record negativo italiano assoluto) e nella risposta di chi ha detto no a una Politica che ignora totalmente una regione – vado anche questo ripetendo e scrivendo da anni – è un buco nero che sta calabresizzando l’Italia e su per li rami nazioni e continenti con la parte peggiore di se. La migliore, infatti, spesso fugge, è succube o omertosa. Se non si risolvono i problemi di questa regione – che per il suo stato di cuscinetto tra Campania e Sicilia ha una valenza eccezionale dal punto di vista anche solo meramente economico – l’Italia continuerà a marciare a più velocità (non tutte le regioni sono uguali nella capacità di reagire alla crisi) ma una cosa è certa: la Calabria e il Sud non viaggeranno proprio e il dramma è che basterà restare ferme per veder allontanare sempre di più ogni prospettiva di agganciare crescita, ripresa e riscatto.
Dalle urne calabre, in altre parole, è partito un grande, enorme, spettacolare “vaffa” alla politica tutta, ivi inclusa quella presunta del M5S che qui non è in grado di riscaldare le grispelle o le melanzane arrostite, figuriamoci le piazze e gli animi.
Ma quel che è successo in Calabria – attenzione – è accaduto anche in Sicilia e in Campania, altri due vagoni di una locomotiva che non può continuare a viaggiare a promesse (in Italia e in Europa). Le promesse non sono un carburante. Sono un’iniezione di fiducia quando vengono realizzate ma sono una dose mortale (per tutto il Paese) quando restano sulla carta ed è proprio quanto da troppo tempo sta succedendo nel sud.
In Sicilia (dove ha votato il 56,65% e dunque poco più che in Calabria) l’affermazione del no è stata ancora più netta: 71,60% e anche in questa regione non illudiamoci sul fatto che il voto sia stato meditato sulla riforma costituzionale. Un grande, gigantesco “macchissenefrega della riforma Boschi” è risuonato da Campobello di Licata a Castelvetrano, passando per Portopalo di Capo Passero e Valguarnera Caropepe (cito Comuni a caso perché tanto non cambia qualunque altro Comune voi vogliate inserire). Persino nei Comuni dove le clientele e lo scambio sono eletti a ragion di vita, il referendum è stato preso nella stessa considerazione con la quale un lanciafiamme può irritarsi di fronte ad un accendino.
E la Campania? Ah, signori miei, che cambia? Nulla. Ha votato il 58,88% degli aventi diritto e qui di diritti se ne intendono perché quasi sempre la mala politica regnante li scambia per favori. Da Casal di Principe a Salerno (tanto per dire, quest’ultima è la città nella quale, ancora oggi, non si muove foglia che il Governatore ed ex sindaco Vincenzo De Luca non voglia) si è levato un solo, unico e uniforme “no (grazie)”.
Quando lo capirà la Politica che il Sud o si governa o, quel che ne resterà, si suiciderà con le proprie mani senza bisogno che queste ultime si dannino per infilare una scheda nell’urna?
r.galullo@ilsole24ore.com