Chi mi conosce sa che considero la libertà di stampa e il diritto all’informazione beni assoluti, insopprimibili e superiori della democrazia. Per questo motivo avverto ogni giorno che passa una adrenalinica, viscerale, passionale, istintiva e tempestosa avversione verso ogni intollerabile, disarmante e incostituzionale forma di bavaglio alla stampa.
A maggior ragione provo questo senso di repulsione verso la limitazione alla conoscenza dei fatti quando a erigere un argine pericolosissimo alla libertà di stampa sono le Istituzioni.
Nella settimana appena trascorsa si sono affacciati due drammatici casi (adopero a ragion veduta questo aggettivo) che ripropongono urgentemente la necessità di un intervento politico in ogni sede a tutela dei diritti costituzionali dei Giornalisti con la G maiuscola (se non fosse che la politica, quando non lo utilizza a proprio consumo, è proprio il peggior nemico del giornalismo e dunque c’è ben poco da sperare).
Ricapitoliamo per quei lettori che non hanno seguito, cosa è accaduto, purtroppo ancora una volta e a breve distanza da altri drammatici casi (si veda link in fondo a questo articolo).
Qui Mantova
La Gazzetta di Mantova da alcune settimane, con piglio, rigore e massimo rispetto per gli indagati che, fino ad eventuale condanna definitiva, sono innocenti, sta dando conto della cosiddetta operazione Pesci che nei primi giorni di febbraio ha rivelato la presenza di una presunta associazione ‘ndranghetista che imperversa tra la Bassa mantovana, la provincia di Brescia e quella di Reggio Emilia, strettamente collegata con la politica. Un’operazione “gemella” rispetto all’operazione Aemilia condotta sempre dai Carabinieri e coordinata dal pm della Dda di Bologna che ha consentito l’arresto di 163 persone tra Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Gli indagati sono 203, a vario titolo accusati di associazione mafiosa, omicidio, estorsione, reimpiego di capitali di illecita provenienza, riciclaggio, usura, emissione di fatture per operazioni inesistenti, trasferimento fraudolento di valori, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, danneggiamento e altri reati, aggravati dal metodo mafioso.
I minuziosi articoli della Gazzetta di Mantova che hanno informato o contribuito ad informare su quanto fino a quel momento l’accusa era riuscita a raccogliere, hanno attinto anche ad un’informativa dei Carabinieri che – attenzione attenzione – era già nella disponibilità degli indagati e degli arrestati. Alla Gazzetta di Mantova, dunque, non vengono mossi rilievi rispetto alla veridicità del contenuto degli articoli.
Di fronte ad una cosa del genere, un Paese civile dovrebbe fare una ola come allo stadio e inneggiare alla libertà di stampa, al diritto all’informazione e al coraggio dei colleghi che, sempre di più, anche al nord vengono minacciati dai sistemi criminali. Come un solo uomo lo Stato dovrebbe plaudire, incoraggiare e aiutare la stampa a fare semplicemente il proprio mestiere: informare senza pregiudizi, con rigore e schiena dritta e nel rispetto della dignità degli indagati.
Invece accade che lo Stato, anziché essere felice che la stampa compie coraggiosamente tratti comuni di strada in quell’impegno civile che è e deve essere la lotta quotidiana alle mafie, spedisca a quattro giornalisti della Gazzetta di Mantova una comunicazione dai Carabinieri, ricevuta il 5 marzo: i quattro sono indagati dalla Procura per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. I quattro colleghi ai quali va tutta la mia solidarietà, anche alla luce del fatto che questo blog da anni sta accendendo le luci su questi incredibili accadimenti, sono Rossella Canadè, Igor Cipollina e Gabriele De Stefani, oltre al direttore Paolo Boldrini.
La reazione del direttore Boldrini è stato da signore di stile e umiltà: «la notifica dell’iscrizione nel registro degli indagati di quattro giornalisti è un provvedimento serio, che la Gazzetta, rispettosa del lavoro dei carabinieri, tiene naturalmente nella massima considerazione. Nella consapevolezza, tuttavia, che questi sono i rischi del mestiere e che il dovere di informare i nostri lettori resta irrinunciabile. Il reato che viene contestato ai giornalisti prevede l’arresto fino a trenta giorni o un’ammenda da 51 a 258 euro».
E dopo la diffusione della notizia sui giornalisti indagati alla Gazzetta, è scattata la solidarietà (su Facebook è nata anche la pagina solidarietàperigiornalistidellagazzettadimantova che segue passo passo la vicenda) innanzitutto del sindacato regionale dei giornalisti, ossia l’Associazione lombarda dei giornalisti (Alg), che esprime la propria vicinanza ai quattro colleghi indagati: «Il difficile lavoro del cronista, che ha per missione raccontare i fatti quotidiani, si confronta qui con il segreto istruttorio che copre atti di indagine e l’attività investigativa delle forze dell’ordine – scrive il neopresidente Paolo Perrucchini -. Pur nel rispetto del lavoro degli inquirenti, con questo caso ancora una volta si evidenzia la necessità di interventi legislativi adeguati che, se da un lato devono tutelare tutti i soggetti interessati, dall’altro non possono limitare in alcuna maniera il diritto all’informazione dei cittadini, cioè uno dei capisaldi della cifra democratica di ogni Paese».
Da una parte i giornalisti, la libertà di stampa e la necessità di informare i cittadini; dall’altra il segreto istruttorio che copre atti di indagine e la necessità, per le forze dell’ordine, di proteggere la loro attività investigativa.
Certo è che qualcuno dovrà convincermi oltre ogni ragionevole dubbio che il diritto a tenere segreti istruttori che non minano in alcun modo le indagini sia superiore al sacrosanto, inviolabile e insopprimibile diritto alla conoscenza dei fatti da parte di una collettività, ancor prima (addirittura) del diritto costituzionalmente sancito dei giornalisti di informare ed essere liberi nel loro esercizio professionale.
Qui Palmi.
Se possibile (è una misera guerra al ribasso) ancora peggiore è quanto successo al collega ex Calabria Ora Agostino Pantano che, come i precedenti colleghi non conosco personalmente, ma al quale va tutta la mia solidarietà ancora una volta.
Pantano è stato rinviato a giudizio con l’accusa di ricettazione come i peggiori delinquenti di Caracas (sic!) e il processo a suo carico è fissato per il 16 aprile davanti al giudice monocratico di Palmi. L’accusa che la Procura della Repubblica di Palmi contesta a Pantano – la cui vicenda è stata segnalata da “Giornalisti Italia”, il quotidiano online d’informazione per l’informazione – trae origine dalla pubblicazione nel 2010 da parte di Pantano, all’epoca responsabile della redazione di Gioia Tauro di Calabria Ora, della relazione redatta dalla Commissione d’accesso che nel 2008 portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Taurianova. Il gip del Tribunale di Cosenza accolse la richiesta della Procura di archiviazione dell’accusa di diffamazione contestata a Pantano sulla base di una querela presentata dall’ex sindaco di Taurianova, Rocco Biasi, ma trasmise gli atti, in relazione dl reato di ricettazione, alla Procura di Palmi, che ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio del giornalista ritenendo che il giornalista si sarebbe appropriato in modo illecito della relazione della Commissione d’accesso. Carlo Parisi, direttore di “Giornalisti Italia” e componente della Giunta esecutiva della Federazione nazionale della stampa, a proposito della vicenda processuale in cui è coinvolto Pantano parla di «ultima, paradossale variante del bavaglio ai giornalisti, con l’aggravante del rischio di finire in galera con una condanna fino ad otto anni di reclusione». Lo stesso Pantano, da parte sua, afferma di avere fatto soltanto il suo «dovere di giornalista. Arrivo al processo per via di un evidente accanimento con cui si tenta di annichilire la funzione sociale della mia professione».
Vi invito a riflettere tutti: il Pantano del caso (ma i casi come il suo sono sempre più numerosi perché le Procure si stanno ormai passando la linea nel silenzio assoluto del Legislatore e dunque il discorso che faccio è in linea generale) è accusato di ricettazione sulla base del fatto che sapendo (e chi lo dice?) che quel documento era stato sottratto e dunque frutto di un reato, lo ha utilizzato non per guadagnare ma, udite udite, per trarre vantaggi che non potendo essere quelli economici sono quelli, verosimilmente, della fama, della notorietà, del prestigio (in Calabria? In Calabria, dove regna l’omertà assoluta e dove il senso di appartenenza ai poteri forti per i giornalisti è spesso un richiamo irresistibile?). Vale a dire che metterci faccia e coraggio, oltre che una firma in calce ad un articolo, che non è un optional bensì una assunzione di responsabilità di fronte al lettore e alla propria coscienza, sono considerati un “vantaggio”. C’è bisogno di aggiungere altri commenti?
Memoria corta
Come ho scritto più volte, ciò che trovo intollerabile è che la magistratura, spesso, oltre a dimenticare che esiste una Costituzione, dimentica anche la recentissima ed ennesima decisione di Starsburgo, secondo la quale il diritto di cronaca va sempre salvaguardato. Per i giudici l’interesse della collettività all’informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate!
Di questo ha scritto Marina Castellaneta per il mio giornale, il Sole-24 Ore, il 17 aprile 2012.
Ecco a voi l’articolo: La Corte europea dei diritti dell’uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata il 12 aprile (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell’amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest’ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d’innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l’obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero – osserva la Corte – che deve essere tutelata la presunzione d’innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano – dice la Corte – i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D’altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Tutte le sentenze della Corte di Strasburgo sul giornalismo (segreto professionale, etc), sono state raccolte da Franco Abruzzo e si possono leggere in http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7339
Le reazioni
Lo stesso Franco Abruzzo, padre putativo e faro per migliaia di giornalisti lombardi e italiani, sta accendendo i riflettori su queste assurde vicende ed è intervenuto anche il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Gabriele Dossena: «E’ sacrosanta la necessità dei magistrati di proteggere le loro indagini e il lavoro dei giornalisti non è certo volto a minare, in alcun modo, le prerogative costituzionali della magistratura. Ma proprio su questo la Corte europea dei diritti dell’uomo è molto chiara. Fin dal 12 aprile 2012, infatti, la Corte di Strasburgo, confermando un sua linea storica in difesa del lavoro dei giornalisti, ha depositato una sentenza nella quale (ex articolo 10 della Cedu) si dichiara inconfutabilmente che quando le notizie sono di interesse pubblico è prevalente il diritto all’informazione rispetto alla segretezza delle indagini. Iscrivere nel registro degli indagati i giornalisti equivarrebbe anzi a dissuadere i cronisti dallo svolgere il loro dovere d’informare i cittadini e lederebbe il diritto dei cittadini a essere informati su una notizia di palese carattere pubblico. Pur nella presunzione d’innocenza, pubblicare una notizia che riguarda il sindaco di una città è un atto di assoluto interesse per la collettività. Dissuadere i giornalisti dal pubblicarla significherebbe mettere a rischio quella libertà di stampa che è sancita dalla Costituzione italiana e dalla Costituzione europea (Trattato di Lisbona) come uno dei capisaldi della democrazia di un Paese”. Con la sentenza 39/2008 la Corte costituzionale, tra l’altro, ha stabilito che “Gli Stati contraenti sono vincolati a uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)».
La stessa politica, con soggetti non a caso indipendenti nella testa, come l’onorevole Pd Lucrezia Ricchiuti, membro della Commissione parlamentare antimafia, sta faticosamente prendendo coscienza della gravità di quanto sta accadendo sotto gli occhi di un’Italia brava a inebriarsi per due chiappe e due tette in tv ma soporifera e autolesionista di fronte alla morte della libertà di stampa.
Ecco la lettera di Ricchiuti alla Gazzetta di Mantova:
Caro direttore, all’inizio de “Il giorno della civetta”, Leonardo Sciascia parla dei testimoni di un omicidio di mafia come di persone che hanno facce di ciechi senza sguardo. Credo che sia così che mafia e ‘ndrangheta vogliano che la cittadinanza si atteggi rispetto ai loro traffici e loschi intrighi.
Ai suoi cronisti, Rossella Canadè, Igor Cipollina e Gabriele De Stefani, e a lei personalmente esprimo quindi tutta la solidarietà di cui sono capace per l’assurda accusa che vi viene mossa per aver pubblicato parti dell’inchiesta Pesci. Aggiungo che non è la prima volta: qualche giorno fa, per esempio, il giornalista Agostino Pantano di Calabria Ora è stato accusato di ricettazione per aver pubblicato parti di una relazione prefettizia prodromica allo scioglimento per mafia del Comune di Taurianova.
Personalmente credo che lo zelo di certe inchieste faccia oggettivamente, anche se involontariamente, il gioco delle mafie. E credo che sia giunta l’ora che il Ministero dell’interno cambi la prassi che prevede la segretezza delle relazioni prefettizie sugli scioglimenti dei comuni per mafia. Con questa lettera intendo affermare la mia intensa vicinanza, sapendo che la sottoposizione a procedimento penale dei giornalisti che fanno un serio lavoro d’inchiesta significa isolarli e metterli a rischio personale.
Non voglio una cittadinanza con facce da ciechi senza sguardo e quindi la esorto ad andare avanti senza paura, perché le mafie si sconfiggono tutti insieme. A questo proposito, mi farò carico di richiedere al presidente del Comitato sulle intimidazioni nei confronti dei giornalisti, Claudio Fava, nell’ambito dei lavori della Commissione nazionale antimafia di cui sono membro, di convocare al più presto i giornalisti in audizione per ascoltare la loro storia e per impedire che la solitudine professionale prenda il sopravvento rispetto agli impegni che, insieme, dobbiamo prenderci rispetto a questo importante tema“.
Ricchiuti ha preso (da anni in vero) coscienza ed è tra i pochi politici ad averlo fatto e spero che sia contagiosa con i suoi colleghi dentro e fuori del Parlamento.
Mi chiedo cos altro dovrà succedere per decretare la morte di una professione il cui grado di libertà è lo specchio della democrazia di un Paese. La magistratura deve (non è una facoltà ma un obbligo) «intervenire sulla società e, lottando contro l’illegalità, sulle vite di tutti, consentire a ciascuno di esercitare i propri diritti». Non lo dice chi vi scrive, ma Rocco Chinnici, giudice ucciso da Cosa nostra il 29 luglio 1983 a Palermo, con gli uomini della scorta e il portiere dello stabile dove abtava (fonte: “E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte – Storia di mio padre Rocco, giudice ucciso dalla mafia”, Caterina Chinnici, Strade blu Mondadori, pagina 37).
Ecco, anche nome dei tanti colleghi che cadono contro ogni ragione nelle reti della giustizia sbagliata, chiedo solo di esercitare i miei diritti.
r.galullo@ilsole24ore.com
(Si leggano anche: