Il titolo, per chi avrà a che fare per la prima volta con la lettura del mio blog potrà scioccare. Chi mi segue da anni, invece, sa che lo ripeto da sempre: la Calabria muore, innanzitutto, per colpa dei calabresi.
Prima che ci sia il solito idiota pronto a sparare contro il razzismo del giornalista del grande giornale del nord, specifico a chi si affaccia per la prima volta su questi schermi mediatici, che sono romano (anche Roma è agonizzante per colpa dei romani, se questo può alleviare taluno) e che il 50% del sangue dei miei figli è calabrese. Aggiungo che frequento quella terra da 27 anni, mettendone a nudo pregi e nefandezze. Può bastare? No? Me ne farò una ragione. Sono abituato a pagare prezzi per la libertà di stampa ed opinione. E’ doloroso ma ne vale la pena.
Ma andiamo a noi.
Dire che la Calabria muore per colpa delle politica sarebbe banale. Sarebbe, come dicono i colti?, ah ecco: demagogico.
Dire che la Calabria muore per colpa del lungo sonno della cosiddetta società civile (ne esiste anche una incivile) sarebbe banale. Sarebbe, come dicono gli istruiti?, ah ecco: populista.
No non basta, perché queste cose – a dispetto dei fanti e dei santi, dei demagoghi e dei populisti – le sanno anche i ciechi che non vogliono vedere e i sordi che non vogliono sentire. Quanto ai muti, beh, in quella terra è una categoria dell’anima: il silenzio in Calabria è d’oro.
No, non basta, così come non bastano gli episodi quotidiani, incessanti, martellanti, ricorrenti, di malaburocrazia, malapolitica, malasanità, malainformazione, malavita. Parola, quest’ultima, che racchiude plasticamente una condizione sofferta o voluta di vita calabrese.
No, non basta ed allora ecco due-esempi-due che sono drammaticamente filati via nel dimenticatoio calabrese senza neppure essere passati attraverso il lavacro sanguinario e insanguinato della delegittimazione, arte dell’Italia corrotta e corruttrice che in Calabria riceve sublimazione.
Due-episodi-due che rappresentano (ovviamente a mio modesto, fallibile e per questo personale giudizio) la prova provata di quanto narro.
Forza Wanda Ferro
Giuro che non ho mai conosciuto in vita mia tal Wanda Ferro. Non le ho mai parlato una volta in vita mia neppure per un secondo e neppure per telefono. Tantomeno ci tengo. A vederla fotografata, in questi anni e in questi giorni, insieme a taluni personaggi del centrodestra calabrese, mi viene istintivamente da considerarla come gli altri con i quali sorride mesta o garrula (dipende dalle occasioni). Lo stesso identico discorso lo farei per qualunque altro politico del centrosinistra fotografato con i suoi sodali. In questo sono agevolato: in Calabria la politica è un periodo ipotetico dell’irrealtà o, se preferite, un incontro ravvicinato del terzo tipo.
L’istinto, dunque, viene azzerato dalla realtà ed ecco perché, senza conoscerla né provare per lei null’altro che apatia grido: forza Wanda Ferro.
Il perché è presto detto. Costei, che candidata governatrice alle elezioni regionali del 23 novembre 2014 nelle quali il suo blocco stantio di potere è stato sconfitto dal blocco transumante del candidato monopotere Dc/Pci/Psi Mario Oliverio, non potrà sedere in consiglio regionale nonostante, con il 23,6 % dei voti, sia risultata la seconda candidata per consensi raccolti. Quindi, per colpa di una legge elettorale regionale che non è stata impugnata dallo Stato per motivi ignoti persino ai numi, costei non potrà guidare l’opposizione (in Calabria non è mai esistita ma sulla carta è così).
Ella ha fatto ricorso dal Tar e ha annunciato che si opporrà con tutte le sue forze a questa nequizia.
Ma vedete, lettori cari, di questo e di altro ancora (polemiche, liti furibonde, querele e battaglie intestine alla coalizione e fuori dalla stessa e via di questo passo) me ne frego.
Quel che trovo devastante, per la democrazia e per la Politica, è che la Regione si oppone al ricorso della succitata Ferro Wanda.
Vedete, se questo fosse vero come sembra sia anche per esplicita denuncia di Ferro (o se fosse stato vero al contrario, vale a dire un candidato di centrosinistra posto di fronte al divieto di accesso di una Giunta di centrodestra) sarebbe come dire che, per legge, la libertà di opinione e pensiero va soppressa.
Fossi io il Governatore della Regione Calabria (non correrò mai questo rischio) prenderei una posizione netta e la griderei ai quattro venti. Poche ma essenziali e sentite parole: «La legge elettorale è uno schifo e dunque spero vivamente che la mia avversaria politica Wanda Ferro possa vincere questo e mille altri ricorsi per sedere in consiglio regionale e combattere la sua battaglia di civiltà politica come prima dei candidati non eletti. Opporsi al suo ingresso per vie legali? Giammai! La politica ridotta a carte bollate sarebbe vizio peggior del mercimonio!» Visto e firmato etc etc.
Addirittura – leggete bene perché una cosa del genere può accadere solo e unicamente in Calabria – le ultime denunce portate al vaglio della magistratura amministrativa e ordinaria indicherebbero che il testo di legge sia stato avocato dai capigruppo (come da prassi) e sottratto alla Commissione dove potrebbe essere stata modificato a insaputa (o meno) dei più e nel passaggio in Aula e i consiglierei si sarebbero trovati a votare norme (come quella che boccia l’ingresso in consiglio del “miglior perdente”) a loro insaputa (il centrosinistra era assente al momento del voto).
I condizionali sono perennemente d’obbligo perché, come diceva Mao Tze-Tung pensando alla Calabria, «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente».
Al di là der pasticciaccio brutto della legge votata o meno nella forma concordata, continuo a sperare che non sia vero che la Regione abbia dato mandato ai legali di opporsi all’ingresso della mancata governatrice e spero vivamente che Mario Oliverio (mai visto e conosciuto in vita mia, ergo portatore sano nei miei confronti delle stesse, apprezzabili vibrazioni apatiche della sua, per il momento, mancata collega in consiglio) faccia un coming out pro Ferro. Il ferro, come si sa, soprattutto quando è voluto (votato) dal popolo, è essenziale in ogni alimentazione. Anche in quella politica.
Viva i ragazzi di Reggio Emilia.
«Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo»: con questa frase di Pippo Fava, giornalista siciliano ucciso da Cosa Nostra, sul sito web (www.cortocircuito.re.it) si presenta l’associazione culturale antimafia di Reggio Emilia Cortocircuito, formata da studenti universitari. Nasce nel 2009 come web-tv e giornale studentesco indipendente.
Nel 2013 Cortocircuito ha ricevuto il premio, consegnato all’Università di Bologna, come migliore web-tv di denuncia d’Italia per «il coraggio nel raccontare attraverso video-inchieste e cortometraggi la criminalità organizzata in Emilia». Nel 2014 il presidente del Senato Pietro Grasso, durante il 20° vertice nazionale antimafia a Firenze, ha consegnato il “Premio Scomodo” nelle mani del coordinatore di Cortocircuito. Cortocircuito ha vinto anche il premio Iustitia conferito da parte dell’Università della Calabria, Cosenza, oltre al premio Rocco Cirino dell’Osservatorio Molisano Legalità. La video-inchiesta “La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana” è stata anche proiettata in Tribunale dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Bologna.
Cosa hanno fatto questi ragazzi recentemente? Ah, niente di particolare…Se l’indagine Aemilia che alcune settimane fa ha sconquassato mezzo nord, ha portato in carcere 163 persone e 203 indagati (si vedano i miei servizi sul Sole-24 Ore e su questo umile e umido blog) e ha rivelato all’Italia dormiente le profonde radici nel nord della cosca cutrese Grande Aracri, è anche merito del coraggio di questi giovani studenti universitari che per anni hanno seguito, pedinato, denunciato e consegnato alle autorità giudiziarie filmati e documenti di boss, presunti boss, politici dubbi, portaborse leccapiedi, dirigenti al servizio, professionisti al soldo, mezze cartucce e quaquaraqua della ‘ndrangheta nelle loro splendide e orgogliose terre. A investigatori e inquirenti, poi, il sacrosanto compito di raccogliere, scremare, buttare, valutare, indagare.
Il coraggio della parola contro l’omertà della mafia. Coraggio sì, perché in Emilia, dove i cronisti che scrivono di mafie vengono costantemente minacciati di morte, molta gente ha paura e non denuncia o si gira (peggio) dall’altra parte e la politica che governa (di qualunque colore) nega l’esistenza della ‘ndrangheta, dove in altre parole il controllo del territorio è emulazione di quanto accade in terra calabra, ci vuole coraggio. Ci vogliono due palle così!
Ve lo immaginate, voi, un cortocircuito così, ma anche semplicemente due fili elettrici collegati male, a Reggio Calabria o a Crotone o a Cosenza? Manco un elettricista trovate, figuratevi voi trovare gruppi di giovani universitari organizzati per filo e per segno, disposti a denunciare le malefatte di una terra dove anche l’aria che si respira è condizionata dai sistemi criminali (ben oltre la ‘ndrangheta dunque).
Peggio, quel poco o tanto che resta o rimane viene messo all’angolo mentre presunti campioni dell’antimafia parolaia passeggiano beatamente con le anime sporche della regione.
Per questo la Calabria muore ogni giorno. O è già morta. Per colpa, innanzitutto, dei calabresi.
r.galullo@ilsole24ore.com