Tra i testimoni che il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) hanno chiamato nel processo penale sulla trattativa tra Stato e mafia c’è anche Francesco Di Carlo.
Della sua deposizione, dal 30 gennaio 2014, dalla scorsa settimana ho cominciato a scrivere su questo umile e umido blog. Per la prima puntata, vale a dire quella della enorme familiarità di Di Carlo con i vertici dei servizi segreti con i quali si incontrava anche da latitante, rimando al post di ieri (si veda link a fondo pagina).
Di Carlo, dall’accusa, viene chiamato a riferire non solo della sua appartenenza alla mafia siciliana ma anche dei rapporti intrattenuti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, di quanto a sua conoscenza sui rapporti tra l’imputato Antonio Subranni, i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’onorevole Salvo Lima; sui suoi rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri anche con riferimento ad investimenti operati da Cosa nostra in attività imprenditoriali riconducibili a Silvio Berlusconi.
Tutte cose (e molte altre ancora) delle quali riferirà nelle udienze del 30 gennaio, del 27 febbraio e del 6 marzo.
La scorsa settimana abbiamo visto insieme, nel racconto di Di Carlo, i suoi rapporti con i vertici dei servizi segreti negli anni 70/80, il motivo per il quale ha deciso di parlare ora di tutto (e di più) e il suo profilo dell’imputato Subranni.
Oggi torniamo, in qualche modo, alle pagine drammatiche e oscure del fallito attentato all’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone, che attendeva nella sua residenza i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann. La mattina del 21 giugno 1989, gli agenti addetti alla protezione di Falcone rinvennero 58 cartucce di esplosivo all’interno di un borsone sportivo accanto a una muta subacquea e pinne abbandonate nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato.
Fu una delle pagine più drammatiche e oscure della recente storia democratica. Ancora oggi è nebbia fitta sul quel gesto e il pool che sta indagando sulla trattativa (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) vuole sentire cosa sa Di Carlo di quel periodo.
Di Carlo il 30 gennaio racconta di alcune visite che ricevette quando era recluso a Londra (città nella quale fu arrestato il 21 giugno 1985 e nella quale, oltretutto, nel ’76 prese la residenza e coltivò affari).
La prima visita la ricevette da un poliziotto inglese che gli chiede di riconoscere Michele Greco e il giudice Giuseppe Ayala, ritratti casualmente in una foto in un occasione mondana. Il poliziotto gli chiede se erano insieme e se si conoscevano. Di Carlo mangia la foglia, capisce che voglio incastrare il giudice e conoscendo la storia dell’uno (Greco, il “papa”) e dell’altro (Ayala) risponde di no, anche dietro le insistenze. E non mette nulla per iscritto, come pure gli era stato chiesto. Di Carlo scopre, in quell’occasione, che il poliziotto inglese non era solo. Con lui c’era un poliziotto italiano (che evidentemente si vergognava a mostrar faccia e anima) che gli aveva passato la foto, ma non sa chi fosse.
Passano, giorni, mesi o settimane e arriva un’altra visita. Comunque prima del fallito attentato all’Addaura, mei primi mesi dell’89.
Questa volta alla sua cella bussano in tre: tal “Giovanni” (Di Carlo lo conosce solo con questo nome e non sa indicare chi sia) che gli porta i saluti di Mario (Ferraro, agente dei servizi Fu trovato morto il 16 luglio 1995 a casa sua, a Roma, impiccato con la corda dell’accappatoio al portasciugamani del bagno; l’inchiesta sulla sua morte fu archiviata dalla procura di Roma); un inglese e un altro soggetto. Da Di Carlo vogliono contatti con i Corleonesi e lui ascolta e prende tempo e nel frattempo contatta Ignazio Salvo attraverso un pizzino che passa in carcere allo stesso “Giovanni”.
ANNULLARE FALCONE
Ma cosa volevano i tre da Di Carlo? Perché tre agenti dei servizi, di cui uno inglese, vanno da lui? Di Carlo lo spiega semore nell’udienza del 30 gennaio ed è agghiacciante: «L’intenzione era solo perché parlando politicamente, parlando di quello che stava succedendo, di mandare via Falcone da Palermo, annullarlo proprio, perché Falcone stava facendo la Dia, queste erano parole che mi ricordo Stava per la Procura Nazionale, erano politici, uomini dello Stato che erano tutti preoccupati che cosa poteva succedere. Ne dicevano di tutti i colori, sembrava che doveva fare Mussolini niente, Hitler, che poteva indagare su tutti e mettere tutti sotto processo, erano preoccupati. Non sapevano più niente, perché aveva un gruppo ristretto che lavorava per Giovanni Falcone, il dottore Giovanni Falcone. E queste, queste erano le lamentele che parlava con me. Era solo cercare di mandarlo fuori. E se noi altri dobbiamo fare qualche cosa in Sicilia, dobbiamo avere le spalle coperte. Ricordiamoci che in Sicilia, fino a me non arrestavano tutti e finché non succedeva…Centimetro per centimetro era controllato, qualsiasi cosa avveniva o se mettevano una bomba, dico, glielo dico quando ci sono state le bombe del 70, dovevamo saperlo tutto, e se lo faceva un poliziotto o lo faceva chiunque sia, si indagava fino a che si sapeva e moriva. Perciò se questi dovevano fare qualcosa, voleva le spalle coperte. Una parentesi la posso fare, signor Pubblico Ministero? Quando è sceso il Prefetto De Francesco nell’82, dopo la morte di Dalla Chiesa, prima che scendesse, Contrada è andato da Saro Riccobono, dice: possiamo stare tranquilli? Non sapendo… Questo verso settembre – ottobre, quando è stato, non sapendo che poi due mesi dopo scompare Saro Riccobono. Mi ha garantito, per dire, chiunque sia in quel minuto, in quel periodo toccava Palermo, si voleva garantire la vita. Questa è parentesi. Perciò questi erano preoccupati, avevano prima Saro Riccobono che poteva garantire, adesso cercavano… Mi sono interessato, visto che non c’era niente di male, anche perché c’erano tutti i condannati, tutti amici miei che erano morti e tanti padri di famiglia condannati che io conoscevo tutti. Avevo detto che non mi interessava più nessuno però capivo, compreso i miei fratelli, capivo le famiglie che cosa stavano soffrendo, ho detto se posso dare una mano, glielo do. E così mando da Ignazio Salvo».
In cambio dei contatti con Salvo & affini, Di Carlo sarebbe stato aiutato a uscire di galera.
Il racconto è agghiacciante perché proviene da un testimone diretto che spiega sostanzialmente e banalmente due cose drammatiche per uno Stato di diritto e per la democrazia: 1) i servizi segreti deviati trafficavano, cercando contatti con garanti mafiosi e potentati mafiosi, avendo le spalle coperte per annullare Falcone senza ucciderlo (al momento); 2) è sempre stato così, anche prima. Altro che trattativa…
IL 27 FEBBRAIO
Nell’udienza del 27 febbraio Di Carlo ribadirà: «A me mi dispiace parlare di tutti i brutti parole che lui mi ha detto (si riferisce a “Giovanni”, ndr), contro Falcone e contro una decina di poliziotti, chiamiamoli poliziotti, ma erano Funzionari che aveva vicino, ragazzini loro li chiamavano (si riferisce innanzitutto a Gianni De Gennaro, ndr, che in questo processo si è costituito come parte civile), che stavano capovolgendo delle regole di loro. Falcone che faceva lavori nel senso che i suoi non informavano i capi della Polizia, non informavano ai superiori. Falcone si teneva tutto segreto di come andava, non aveva fiducia a nessuno di questa gente e poi erano molto, ma molto preoccupati i politici, perché questi sono gente dei politici ad un certo livello, erano preoccupati di cosa stava mettendo in piedi il dottore Falcone, e cioè…
Perché poi abbiamo… Mi parlava che stava facendo la Dia, lui la chiamava una specie di Fbi italiana, la Dia, la Procura Nazionale. La Procura Nazionale spaventava, la parola in sé stesso ai tempi, che poi in Italia il risultato è sempre quello, cambiare tutto per non cambiare nulla. E allora erano preoccupati per la Procura Nazionale, il segreto bancario già quasi non esisteva più, non si indagava su Palermo, si indagava su
tutta l’Italia. Questi erano gli argomenti che aveva. Però dice (Giovanni, ndr) se lo portiamo a ristabilire le regole e farlo andare dalla Sicilia, si risolve tutto. Questi erano tutti i discorsi che si facevano. Non avevano nomi quelli, sia il dottore Falcone, sia… Nel senso non avevano nomi dispregiativo, che non è giusto pronunciare le parole che mi ricordo. E anche quelli, il ragazzino Di Gennaro e tutti quelli che erano insieme. Abbiamo parlato pure, perché c’era uno di questi che stava venendo a testimoniare nel mio processo, che era Capo della Polizia, che faceva parte del gruppo di Di Gennaro (Alessandro Pansa, ndr) e di tutti… Erano una decina di persone, ragazzini li chiamava».
Queste persone venivano da questo “Giovanni” accomunate come persone, funzionari di stretta fiducia di Giovanni Falcone chiede Di Matteo e Di Carlo non indietreggia di un passo: «Sì, sì, diceva i ragazzini che aveva accanto, che ci faceva fare tutto quello che voleva lui e non davano, come dire, conto e ragione ai propri capi, ma si preoccupavano perché scavava da qualsiasi parte, ma c’erano politici che erano pure preoccupati e non solo i politici e anche, come dicevano loro, qualche
pezzo grosso dei Carabinieri. Infatti loro non ci volevano avere a che fare. Questa era tutta la situazione che loro dicevano, va bene? E facendo così, questo è il secondo incontro, sarebbero arrivati pure a cercare di salvare in Cassazione il processo che a Palermo erano stati condannati, avrebbero garantito i processi che c’erano ancora in corso, quelli che ancora si dovevano fare Appello e anche in Cassazione, insomma prometteva tutto questo. Alla fine, quando ci ho detto io: quando tu vuoi, parlate con Ignazio e Ignazio si prende la responsabilità, Ignazio Salvo con Riina, vedete che se non portate le cose in porto può finire male. No, dice (Giovanni, ndr), noi ce la facciamo perché appena se ne va Falcone da Palermo le cose cambiano, lo mettono in amministrazione, lo mettono qua, lo mettono là, e finirà là il discorso. Il risultato è questo, che quando il dottore Falcone se ne è andato a Roma, è diventato più pericoloso per certuni di questa gente». Già forse è per questo che dalla teoria dell’annullamento si è passati alla strage di Capaci e poi di via D’Amelio e via di questo passo.
QUALE CONCLUSIONE?
A questo punto vi chiederete: come è andata a finire? I contatti con Salvo procurati da Di Carlo sono andati a buon fine? Lo spiega lo stesso Di Carlo con un semplice “sì” e ricorda come il secondo italiano che aveva in precedenza bussato alla sua porta era Arnaldo La Barbera, riconosciuto come tale solo a distanza di tempo attraverso delle foto pubblicate sui giornali. Tutte affermazioni di una parte che vanno ovviamente riscontrate, con La Barbera che non potrà più difendersi ulteriormente dalle accuse visto che è deceduto l’11 settembre 2002.
Di Carlo ribadisce poi al pm Di Matteo che non volevano uccidere Falcone, in quel momento, ma solo annullarlo: Avevano intenzione di… Io capisco, provocazione, cercarlo di screditarlo nell’opinione pubblica, di fare… Qualsiasi mezzo usare perché tutti volevano questo, di quello che… Tutti, nessuno escluso, in qualsiasi settore. Delle Istituzioni, ntendiamoci». E per non farsi mancare nulla Di Carlo racconta anche che con quel “Giovanni” parlavano di Ciancimino, che invece per il pentito di Altofonte, era in contatto con i Carabinieri.
Per ora mi fermo qui ma domani torno
4 – to be continued (per le precedenti puntate si vedano