Cari lettori, da lunedì sto analizzando le 25 pagine di memoria depositate il 26 settembre dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, con le quali chiedono la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del cosiddetto processo Mori-Obinu per fatti, avvenimenti e prove che non potevano essere conosciuti dal collegio giudicante che in primo grado il 15 luglio 2013 ha assolto (con sentenza impugnata dalla procura) Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia e che ora, invece, secondo la stessa pubblica accusa, lo sono e devono essere resi noti e (ri)dibattuti.
Ieri e il giorno prima abbiamo cominciato a vedere il “ponte” tra Sicilia e Calabria immediatamente prima e a cavallo delle stragi di Cosa nostra. Abbiamo analizzato anche la figura di Paolo Bellini, così come emerge dalla ricostruzione della Procura generale di Palermo.
Oggi pur proseguendo sul filone degli “incroci” sull’asse Palermo-Reggio Calabria, dirazziamo e andiamo alla morte di Antonio Gioè, tra i killer di Capaci, uomo d’onore in contatto con esponenti dei servizi segreti, protagonista della stagione stragista del 1992, depositario dei segreti piani politici sottostanti alla medesima strategia che coinvolgevano soggetti esterni a Cosa Nostra.
Gioè, come abbiamo visto in contatto con il calabrese Paolo Bellini, si suicidò in circostanze non del tutto chiarite nel carcere romano di Rebibbia nella notte fra il 28 e il 29 luglio 1993.
Il procedimento avviato dalla Procura della Repubblica di Roma per la morte del Gioè si concluse con decreto di archiviazione ma la Procura generale di Palermo vuole riaprire (sarebbe meglio dire spalancare) quella pagina.
FILIPPO MALVAGNA
La Procura, il 25 luglio 2014, ha infatti sentito il collaboratore di giustizia Filippo Malvagna.
Malvagna ha riferito che, essendo stato detenuto a Rebibbia come Gioè, già subito dopo la sua morte, i detenuti avevano ritenuto che lo stesso non si fosse suicidato ma fosse stato ucciso dai servizi segreti per non farlo parlare.
Il convincimento del collaboratore di giustizia scaturiva dal fatto che la notte della morte di Gioè vennero chiusi non solo le porte dei detenuti di quel braccio ma anche gli “spioncini”, in modo da non far sentire ai detenuti ciò che accadeva.
IL PROFILO DI MALVAGNA
Filippo Malvagna non è uno qualunque.
Nipote di Giuseppe Pulvirenti detto “’u malpassotu”, già nell’interrogatorio a Palermo del 9 maggio 1994, confermò la riunione “strategica” di Enna della fine del 1991, nella quale si elaborò la strategia stragista, di cui aveva già riferito Leonardo Messina.
Ecco quanto dichiarò.
Malvagna: Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di “guerra allo Stato” che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere.
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Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell’esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall’isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell’incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore
Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell’ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l’oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali
alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano “saltati” i referenti politici di Cosa nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l’organizzazione senza le sue tradizionali coperture.
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Quanto alle ragioni dell’attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d’accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il “malpassotu” mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina:“Si fa la guerra per poi fare la pace”. Successivamente ebbi modo di discutere ancora
con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il “malpassotu”, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia.
Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il “malpassotu” mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla “Falange Armata”. (Per quanto riguarda la Falange Armata si legga anche http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/02/26/falange-armata-si-rifa-viva-con-la-lettera-a-toto-riina-ma-la-sua-presenza-borderline-e-vecchia-le-i/ )
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Per quanto mi riferì il “malpassotu” la decisione di intraprendere una vera e propria guerra allo Stato era stata presa da tutti coloro che avevano partecipato alla riunione nella provincia di Enna. Questa unanimità di vedute si era mantenuta anche dopo le stragi in danno del dr. Falcone e del dr. Borsellino.
NEL PROCESSO
Nel corso della sua deposizione nel processo per la strage di Capaci Malvagna ha ribadito che, nel corso della riunione tenutasi nella provincia di Enna tra gli ultimi mesi del 1991 ed i primi giorni del 1992, alla quale erano intervenuti gli esponenti di vertice di tutte le province siciliane, e tra questi Santapaola e lo stesso Riina, si era deliberata, su proposta di quest’ultimo e con l’approvazione di tutti, una strategia con la quale – preso atto che avevano perso consistenza i pregressi rapporti dell’organizzazione con appartenenti al mondo politico-istituzionale – si abbandonava ogni remora e si muoveva un attacco deciso contro l’apparato statale per destabilizzarlo e crearsi nuovi spazi di trattativa. Malvagna aggiunse che si era anche concordato che l’attuazione della strategia avrebbe richiesto il contributo di tutte le province e che doveva consistere, fra l’altro, nel porre in essere attentati ed intimidazioni nei confronti di chi, nell’ambito di ogni provincia, mostrava di volere più seriamente opporsi a Cosa nostra, tanto che egli aveva ben compreso che l’attentato al giudice Falcone faceva parte di un «progetto ancora più espansivo» (Giuseppe Pulvirenti, dopo la strage di Capaci, gli aveva detto: «devono succedere altre cose»).
Malvagna evidenziò che nel catanese vennero ideati ed in parte posti in essere, nel quadro della stessa strategia, atti intimidatori nei confronti del sindaco pro-tempore di Misterbianco Antonio Di Guardo, del giornalista (attuale parlamentare e vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia) Claudio Fava, dell’avvocato Guarnera e perfino un attentato avente come obiettivo il Palazzo di Giustizia di Catania, nonché di aver appreso successivamente che appartenenti alla consorteria catanese si erano attivati per raccogliere informazioni al fine di realizzare attentati anche in Toscana e a Torino.
NON SOLO MALVAGNA
Di Gioè e dei suoi rapporti con i servizi segreti hanno inoltre riferito i collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Angelo Siino, anche quest’ultimo peraltro avanzando dubbi sulla sua morte.
Lo stesso Loris D’Ambrosio, morto il 26 luglio 2012, consigliere del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per gli Affari dell’amministrazione della giustizia, negli anni caldi delle stragi a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, intercettato, conversando con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, aveva messo in dubbio che Gioè si fosse suicidato.
Ora mi fermo ma domani torno con una nuova puntata.
4 – to be continued (per le precedenti puntate si vedano