Oggi, per la prima volta dopo tantissimi anni, trovare la forza di scrivere con serenità è stato difficile. Un conto, infatti, è leggere le cronache necessariamente frammentate (giacché la cronaca, dal greco “kronos”, si snoda appunto nel “tempo” senza soluzione di continuità) su quanto sta accadendo a Palermo intorno all’evoluzione dei sistemi criminali e un conto è leggere integralmente una delle “fonti” all’origine di quell’aria che oggi, nel capoluogo siciliano, è tornata a spirare come preludio alla morte.
Trovare la forza di scrivere e di rendere semplice ai lettori la ricerca, da parte di investigatori e inquirenti, del bandolo della matassa intorno alle stragi siciliane e continentali degli anni Novanta e di quanto prima e dopo ne è seguito nei gangli marci di uno Stato deviato, non è facile. La trattativa (ma sarebbe corretto parlare di trattative, alle quali lo Stato deviato contemporaneo è assuefatto fin dai tempi dei sequestri di persona) tra Stato e Cosa nostra, né è solo una quota parte.
Leggendo le carte – come amo sempre fare – mi sono reso conto che lo sforzo dei procuratori palermitani è sovrumano. Cerco maledettamente di non essere banale ma non mi viene in testa nient altro che questa immagine maledettamente banalissima: salmoni controcorrente.
Le carte alle quali faccio riferimento in questo servizio e in quelli che dedicherò nei prossimi giorni alla vicenda, sono le 25 pagine di memoria depositate il 26 settembre dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, con le quali la Procura generale di Palermo chiede la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del cosiddetto processo Mori-Obinu per fatti, avvenimenti e prove che non potevano essere conosciuti dal collegio giudicante che in primo grado il 15 luglio 2013 ha assolto (con sentenza impugnata dalla procura) Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia e che ora, invece, secondo la stessa pubblica accusa, lo sono e devono essere resi noti e (ri)dibattuti.
PALERMO CHIAMA REGGIO RISPONDE
Ebbene, queste carte vanno inevitabilmente lette e collegate a quanto in primis sta accadendo nel processo sulla trattativa.
Il pool palermitano della Procura (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) sta appunto imbastendo tra mille difficoltà il processo sulla trattativa Stato-mafia. Del resto quel processo palermitano è figlio del processo Mori-Obinu e dunque non solo da esso trae linfa ma, ad esso, il suo destino è (col)legato. Almeno questa è la mia idea. Riaprire dunque il primo processo con fatti sconvolgenti (quali si appalesano quelli presentati dalla Procura generale) vuol dire dare una carica nuova e inattesa anche al secondo processo.
Ma le 25 pagine della memoria palermitana vanno lette e collegate anche con quanto sta avvenendo, ad esempio, nelle stanze dei procuratori della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e del sostituto Giuseppe Lombardo e sebbene la presenza del delegato della Dna, Francesco Curcio, assicuri competenza e coordinamento, sarebbe auspicabile un maggior dialogo tra le due Procure per evitare o concordare (ad esempio) interrogatori doppi che un pregio però hanno: fanno capire che dall’una e dall’altra parte dello Stretto si sta indagando su filoni convergenti. E, allora, che convergenza sia per aumentare la forza d’urto contro un sistema criminale marcio e sempre più potente.
MENTI (DI STATO) RAFFINATE
La lettura delle carte fa inequivocabilmente capire che le minacce e gli avvertimenti giunti a Roberto Scarpinato sono frutto, come ho già scritto su questo blog molte volte, di quello Stato deviato e marcio che sta corrodendo dall’interno lo Stato stesso. Coglie nel segno, a mio parere, Nando Dalla Chiesa quando, sul Fatto Quotidiano di domenica 12 ottobre paragona l’attuale strategia della tensione nei confronti di Scarpinato a quella nei confronti di Giovanni Falcone. «Se vogliamo rimanere alla parabola purtroppo esemplare di Falcone, la lettera (di avvertimenti e minacce a Scarpinato, ndr) – scrive Dalla Chiesa – assomiglia piuttosto alle borse di tritolo dell’Addaura. Lì stavano “il gioco grande” e “le menti raffinatissime” di allora. Perciò occorre la massima attenzione».
La lettura delle carte evidenzia che c’è un filo nero (anziché rosso) che lega le pagine buie di quegli anni e che (questa è una mia sensazione) continua a legare anche oggi pagine criminali di quell’enciclopedia che è la corruzione in Italia.
Il filo nero è la presenza – ieri come oggi – dei servizi segreti deviati. Come si possa deviare rispetto ad un fine supremo (la sicurezza della Patria e della democrazia) è mistero glorioso per devoti cattolici ma non per laici impenitenti. Entrambi sanno che a tutto si può resistere tranne che alla tentazione ma solo i secondi ne restano intrappolati.
LA RICOSTRUZIONE
Vale la pena di partire dalla fine, vale a dire da quelle conclusioni della Procura generale che pongono in evidenza il ruolo dell’imputato Mario Mori nell’ambito dei servizi segreti e delle loro presunte deviazioni. Sia ben chiaro: già assolto in primo grado, per lui vale a maggior ragione la presunzione di innocenza. Lungi da me giudicare la colpevolezza (per quello ci sono aule di Tribunale) racconto il filo logico della ricostruzione di Scarpinato e Patronaggio. Sarà poi l’eventuale dibattimento a vedersi formare o meno le prove di colpevolezza. Rimando, per completezza di informazione anche al link il-testo-integrale-delle-motivazioni-della-sentenza-del-processo-obinu-mori nel quale leggere e scaricare le motivazioni dell’assoluzione in primo grado.
LEGGE ANSELMI
Certo è che, nel chiarire alla Corte la pertinenza e rilevanza processuale delle altre prove delle quali si chiede l’ammissione, a pagina 5 Scarpinato e Patronaggio scrivono che intendono dimostrare che l’imputato Mori, pur dopo la sua «formale» fuoriuscita dai servizi segreti, nei quali peraltro ha fatto rientro al termine della sua carriera nei Carabinieri divenendo direttore del Sisde, «ha sempre mantenuto, pur durante il servizio prestato nel Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, non imputabili giuridicamente allo Stato in quanto non supportate da procedure legalitarie di accreditamento istituzionale previste dell’Ordinamento, e che, per tale motivo, egli ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali gravanti sugli ufficiali di Polizia giudiziaria tenuti ad attenersi alle norme del codice di procedura penale e i doveri di lealtà istituzionale nei confronti della magistratura, traendo in inganno i magistrati anche mediante l’omessa comunicazione della verità degli avvenimenti o avallando la rappresentazione di versioni false degli avvenimenti».
Ora, così stando le cose ce ne sarebbe abbastanza per contestare la violazione della cosiddetta legge Anselmi (n.17 del 25 gennaio 1982).
Ed è proprio il continuo richiamo al connubio massoneria deviata-servizi segreti deviati-eversione nera che colpisce e che rappresenta – ma guarda un po’ – lo stesso filone che la Procura di Reggio Calabria sta seguendo non solo (ripeto: non solo) con l’indagine Breakfast.
Come risulta da documentazione acquisita presso gli archivi dell’Aise (l’Agenzi di informazione e sicurezza esterna), Mori ha iniziato la sua carriera nei servizi segreti e in particolare è stato in forza nel Sid dal 1972 al 1975. In quegli anni il Sid (Servizio di informazioni della Difesa creato nel ‘66 e sciolto nel ‘77) era diretto dal generale Vito Miceli iscritto alla loggia segreta P2 e già inquisito per la organizzazione della destra eversiva “ La Rosa dei Venti”.
Giovanni Tamburrino, giudice istruttore che conduceva l’inchiesta sulla “Rosa Dei Venti”, aveva chiesto ai Servizi una foto identificativa di Mori poco prima di essere spogliato dell’inchiesta a seguito del trasferimento della competenza alla Procura di Roma, stabilito dalla Corte di Cassazione. La riassegnazione toccò al pubblico ministero Claudio Vitalone.
La Procura generale ricorda ancora che il generale Gianadelio Maletti, già a capo del Sid, nel restituire Mori all’Arma dei Carabinieri impose il divieto che Mori stesso operasse a Roma.
ANCORA P2
Scarpinato e Patronaggio insistono sul filone P2/massoneria deviata tanto che chiedono l’assunzione della testimonianza in dibattimento dell’ex colonello Mauro Venturi, che ha prestato servizio nel Sid con Mori.
Orbene, attraverso la testimonianza di Venturi, la Procura generale vuole provare, tra le altre cose, che Mori propose a Venturi di aderire alla loggia massonica P2 di Licio Gelli confidandogli che esisteva una lista segreta costituita da alti ufficiali dell’Arma e dei Servizi e gli propose di recarsi nella villa di Gelli.
Agli atti del processo sulla trattativa, i pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Vittorio Teresi hanno intanto depositato i verbali degli interrogatori resi tra febbraio e aprile 2014 da Venturi e gli stessi saranno dunque prodotti dalla procura generale anche nel processo d’appello sul mancato arresto di Provenzano (accusa dalla quale Mori, ricordiamolo ancora una volta, è stato assolto in primo grado). Venturi farà mettere a verbale molte cose. Tra le altre dirà che Mori effettivamente cercò di convincerlo ad iscriversi alla P2 e ricorderà il rapporto fiduciario tra Mori e Gianfranco Ghiron.
IL “PONTE” GHIRON
Attraverso la stessa testimonianza di Venturi la Procura generale vuole provare che Mori era legato da un vecchio rapporto di amicizia personale con Gianfranco Ghiron, che secondo la ricostruzione di Scarpinato e Patronaggio era inserito nell’ambiente dei Servizi con il criptonimo “Crocetta”, esponente della destra eversiva.
Non solo: per la Procura generale Mori era altresì legato al fratello di Gianfranco Ghiron, Giorgio, difensore di Vito Ciancimino e condannato per riciclaggio di capitali.
ED ECCO LICIO GELLI
Tutto questo giro serve alla pubblica accusa per provare anche l’opacità del rapporto fra Gianfranco Ghiron e Mori nella gestione, fra l’altro, proprio di Licio Gelli in un momento in cui quest’ultimo era oggetto di indagini da parte dell’autorità giudiziaria.
A tal fine Scarpinato e Patronaggio hanno chiesto di acquisire agli atti del procedimento una lettera dattiloscritta del 5 novembre 1974, prodotta dallo stesso Gianfranco Ghiron in un interrogatorio del 22 luglio 1975, nella quale si fa riferimento a Mori (per la pubblica accusa indicato con il criptonimo “dr. Amici”) per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli (indicato, per la Pg, come “Gerli” nella missiva) all’estero a causa delle indagini incorso da parte dell’Autorità Giudiziaria.
SUBRANNI E ILARDO
Tanto si legge ancora nella memoria con riguardo alla trattativa ma per rimanere fedeli all’analisi odierna sui servizi segreti deviati, Scarpinato e Patronaggio ricordano il filo che univa Mori al generale Antonino Subranni, diretto superiore gerarchico del Mori.
Nel processo di primo grado sono state acquisite le dichiarazioni rese il 18 agosto 2009 dalla signora Agnese Borsellino sul gravissimo turbamento che aveva colto il marito Paolo Borsellino, sino ad arrivare ad avere conati di vomito, quando, poco tempo prima della strage di via D’Amelio, le aveva rivelato di avere appreso di presunti rapporti tra Subranni e la mafia in un contesto discorsivo che faceva riferimento a pezzi infedeli dello Stato e al timore dello stesso Borsellino di essere osservato dai servizi segreti deviati (pagina 158 e seguenti della sentenza appellata).
Per sottolineare la pertinenza al tema processuale delle nuove prove, la pubblica accusa evidenzia ancora che nel processo di primo grado sono state acquisite le dichiarazioni del tenente colonnello Michele Riccio sul fatto che l’infiltrato Luigi Ilardo, pochi giorni prima di essere assassinato, aveva anticipato a Mori che avrebbe rivelato ai magistrati quanto a sua conoscenza sul generale Subranni e sul ruolo di pezzi deviati delle Istituzioni nella stagione dello stragismo. Dichiarazioni peraltro ribadite ed approfondite nel nuovo esame dello stesso colonnello Riccio svolto dalla Procura generale il 17 luglio 2014.
Oggi mi fermo qui. A domani con una nuova puntata.
1 – to be continued