Cari lettori e amici di blog, da mercoledì ho deciso di accendere i riflettori su quanto sta accadendo a Palermo intorno al procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, da tempo soggetto a minacce, incursioni e avvertimenti che hanno il sapore dello Stato marcio e deviato ancor prima di quello di Cosa nostra. Riflettori che dunque, inevitabilmente si accendono anche sui pm del processo sulla trattativa Stato-mafia.
Nei giorni scorsi (in fondo a questo articolo allego i link con i quali è possibile leggere le precedenti puntate) abbiamo visto che quel sistema criminale che Scarpinato e gli uomini della Dia di Palermo avevano lucidamente disegnato in una lunga indagine, si era poi arenato di fronte alla difficoltà di provarne in un’aula di Tribunale l’esistenza in pianta stabile.
Un sistema criminale in cui dominava Cosa nostra, che come una calamita attirava intorno a se le altre mafie, organizzazioni criminali e consorterie massoniche deviate, in stretto collegamento con eversione nera e servizi deviati. Lo scopo era sovvertire l’ordine dello Stato e fare in modo che le mafie si facessero Stato esse stesse.
Oggi, rispetto a 20 anni fa, magistrati palermitani, nisseni, catanesi e reggini stanno cercando faticosamente e meticolosamente di riannodare i fili logici di quell’indagine e apportare nuovi elementi nell’ottica di reggere il confronto probatorio in un’aula di tribunale e svelare una verità storica che a molti appare evidente ma che deve trovare anche un sigillo giudiziario.
In questa ricerca della verità uno snodo vitale è, ancora una volta, rappresentato dalle velenose relazioni tra logge deviate e servitori infedeli dello Stato.
Vale la pena, in questi giorni, in questi momenti in cui la memoria corta di molti cronisti ricorda, al massimo, solo Luni Mancuso e il recente testimone di giustizia lombardo-calabrese Antonino Belnome (si veda ad esempio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/03/peppe-de-stefano-ha-ragione-non-sa-cos-e-la-ndrangheta-e-lo-sa-molto-prima-degli-altri-per-questo-lancia-messaggi/) che Leonardo Messina, il primo collaboratore di giustizia ad esporre in modo organico il progetto politico-eversivo oggetto procedimento palermitano archiviato nel 2001, fu il primo a mettere un “impaurito” e timidissimo accento sulla massoneria deviata.
Lo fece davanti alla Commissione parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992, prima ancora, ricordano i pm palermitani nel provvedimento coi il quale venne chiesta l’archiviazione dell’indagine sui sistemi criminali, che avvenissero alcuni eventi politici che lo stesso Messina anticipò.
In Commissione parlamentare antimafia Messina parla della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne
di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo e delle alleanze necessarie per portarlo a termine. Progetto, ricordiamolo ancora una volta, che avrebbe dovuto vedere l’esplosione dello Stato unitario e la realizzazione del sogno delle mafie di farsi Stato, con la creazione di uno o più Stati indipendenti.
Messina fece cenno alla riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo, già nel primo interrogatorio in cui manifestò la sua intenzione di collaborare con la giustizia, reso il 30 giugno 1992 all’allora procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino.
Ecco lo stralcio dell’interrogatorio in Commissione parlamentare antimafia.
LE ALLEANZE
Presidente. Può spiegare meglio questo passaggio di alleanze?
Messina. Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro.
Presidente. L’obiettivo è quello di rendere indipendente la Sicilia rispetto al resto d’Italia?
Messina. Si. In tutto questo Cosa nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria.
Presidente. Ci sono forze nuove alle quali si stanno rivolgendo?
Messina. Si, ci sono forze nuove, si stanno rivolgendo.
Presidente. Può dire alla Commissione di quali forze si tratta?
Messina. . Non vorrei creare qua situazioni …
Presidente. Va bene. Si tratta di formazioni tradizionali o di formazioni nuove?
Messina. Sono formazioni nuove.
Presidente. Non tradizionali.
Messina. No, non tradizionali.
Presidente. In Sicilia sono forti o sono deboli?
Messina. Non vengono dalla Sicilia.
…………………………………………
Presidente. Lei ha fatto più volte riferimento alla massoneria. Vuole spiegare questo rapporto?
Messina. Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra.
Presidente. Ed è nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo?
Messina. Si. Desidero precisare che tutto quello che dico non è fonte di deduzioni o di interpretazioni personali, ma è quello che so.
Presidente. Queste cose le sa per conoscenza diretta?
Messina. Si, le so per conoscenza diretta.
UN POTERE DIVERSO
Vorrei, cari lettori, che vi fosse chiaro il passaggio in cui Messina chiarisce che per i capi di Cosa nostra (quindi pochi eletti) è «nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». Trovo straordinaria l’ultima frase di Messina: «un potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra». Un potere che non punisce, come quello mafioso, è un potere che “premia” ed “educa” a proprio uso e consumo, come quello deviato sui quali si stanno nuovamente riaccendendo i riflettori.
Ma andiamo avanti con l’interrogatorio.
……………………………
Presidente. Può spiegare l’ipotesi separatista? Lei ha detto che la Sicilia è troppo piccola ormai per gli affari di Cosa nostra; poi però ha aggiunto che a Cosa nostra e ai massoni insieme ora interesserebbe il separatismo siciliano. Può spiegare questi due concetti che sembrano apparentemente in contraddizione?
Messina. “Massone” è una parola che poi racchiude tantissimi tipi di persone. Cosa nostra non può più rimanere succube dello Stato, sottostare alle sue leggi, Cosa nostra si vuole impadronire ed avere il suo Stato.
………………………………………
LE INDAGINI A RISCONTRO
Sulla base delle dichiarazioni di Leonardo Messina, il 22 luglio 1996 la Dia di Palermo fu delegata ad un’attività investigativa di riscontro, nell’ambito della quale, come si legge a pagina 29 del provvedimento con richiesta di archiviazione dell’indagine sottoposto all’Ufficio Gip di Palermo, furono acquisiti significativi elementi di conferma.
E da pagina 76 si legge che dal panorama delle dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia interrogati, emergevano con evidenza i contorni del piano eversivo, originariamente delineato nelle dichiarazioni di Leonardo Messina. Le rivelazioni dei collaboratori trapanesi, catanesi, calabresi e pugliesi consentirono di individuare il coinvolgimento nel “piano” delle altre “mafie” italiane. Tutte dichiarazioni, peraltro, risultate puntualmente riscontrate in ogni parte suscettibile di concreta verifica.
L’INFORMATIVA DIA
Del resto, l’ipotesi di un movente ulteriore ed occulto delle stragi, convergente con quello “tradizionale” di Cosa Nostra, venne già avanzata dalla Dia (Direzione investigativa antimafia) nella nota n. 4222/94 del 4 marzo 1994, prendendo le mosse da «talune anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di cosa nostra». All’ipotesi «che si fossero inserite nell’azione mafiosa patologie estranee», la Dia infatti perveniva, con speciale riferimento alla strage di via D’Amelio, sulla base di un dato storico incontrovertibile: la strage venne eseguita pochi giorni prima che si concludesse in Parlamento la discussione sulla conversione in legge del decreto legge dell’8 giugno 1992, poi convertito nella legge del 7 agosto 1992 e il dibattito parlamentare aveva evidenziato resistenze da parte di varie forze politiche alla conversione di alcune norme, sicché appariva poco consono alla tradizionale prudenza di Cosa Nostra avere impresso un’accelerazione all’esecuzione della strage, così finendo per agevolare la rapida conversione in legge del decreto con una serie di significativi inasprimenti.
Nell’informativa della Dia., in particolare, si evidenziava: « In un momento così delicato, a soli due mesi di distanza dalla strage di Capaci, l’esecuzione di un secondo gravissimo omicidio, per cui non esisteva alcuna apparente motivazione di urgenza, non sembra sia da ricondurre esclusivamente agli interessi immediati di “Cosa nostra”. L’organizzazione mafiosa, adusa a ponderare con cura le proprie mosse, non poteva non considerare che l’impatto sull’opinione pubblica sarebbe stato fortissimo e che altrettanto forte sarebbe stata la richiesta di adozione di severe misure di contrasto alla criminalità. Difatti con l’omicidio Borsellino cadde ogni perplessità nei confronti del provvedimento governativo che venne addirittura inasprito. L’apparente incongruenza della decisione presa da “Cosa nostra” non può quindi trovare giustificazione se non interpretando la sua condotta come espressione della volontà di perseguire fini diversi da quelli logicamente ad essa attribuibili, quali quello di provocare il rinvio di un processo o impedire ad un magistrato di proseguire in una inchiesta capace di arrecare gravi danni all’organizzazione o semplicemente eseguire una vendetta».
LA SCISSIONE MASSONICA
In questo scenario è (colpevolmente) passata sotto silenzio la notizia che l’Ansa di Palermo ha battuto il 22 settembre.
Le infiltrazioni mafiose e ‘ndranghetiste nella massoneria e il terremoto che, nel 1993, provocò lo scisma nel Grande oriente d’Italia (Goi) e le dimissioni del gran maestro Giuliano Di Bernardo entrano nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
Di Bernardo è stato sentito come testimone dai pm palermitani che indagano sul patto che pezzi dello Stato avrebbero (hanno) stretto con Cosa nostra.
I pm sono andati a rivedere quello che per l’epoca fu un vero e proprio terremoto. Di Bernardo lasciò la guida del Grande oriente e prima di dimettersi andò dal duca di Kent, massima autorità massonica, per segnalargli il rischio di ingerenze criminali legate a mafia e ‘ndrangheta. Un incontro, quello tra il gran maestro e il duca, che portò quest’ultimo, riporta sempre l’Ansa, a revocare il riconoscimento al Grande oriente d’Italia. Sentito dai pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, Di Bernardo avrebbe confermato di avere saputo di presenze criminali infiltrate nel Goi e di essere venuto a conoscenza che stavano per accadere fatti gravi.
Ora, capite voi da soli, che questo accerchiamento nei confronti dei pm, ancora alla ricerca di una verità dolorosa e devastante per lo Stato di diritto, fatto di mafie, massoneria deviata, servitori infedeli dello Stato e omertà tra chi invece dovrebbe levare alti i valori della democrazia, rende non solo incandescente la loro vita ma rischia di affossare per sempre il concetto di legalità in quel che rimane dell’Italia.
3 – the end (per le precedenti puntate si vedano http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/10/08/la-memoria-dei-sistemi-criminali-si-risveglia-braccata-roberto-scarpinato-c-ostacoli-da-abbattere/