Cari amici di blog oggi si parla di Cosa Nostra. Ne sentivate la mancanza vero? Io si perché in troppi grilli parlanti e superficiali osservatori la danno per morta. Anche qualche lettore che, tempo fa, mi chiedeva di parlarne.
Forse alcuni di voi – quelli che seguono i miei servizi sul Sole-24 Ore – martedì scorso, 17 marzo, avranno letto la mia inchiesta sulla pervasività della ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia. Prendevo le mosse dalla retata di ‘ndranghetisti di III generazione (che ormai credono di essere diventati bauscia) che si infiltravano negli appalti pubblici, a partire da quelli per l’alta velocità (Tav).
Quell’inchiesta che ho scritto (in realtà una delle tante che vò dedicando alla criminalità organizzata da 4 anni a questa parte sul Sole e su Radio 24 nei miei programmi “Un abuso al giorno” e “Guardie o ladri”), metteva in luce il grido di allarme della Direzione nazionale antimafia (Dna) nei confronti della ‘ndrangheta che si sta mangiando la Lombardia e che ha eletto Milano capitale, con Brescia “riserva”. Oh yes!
Se le cosche calabresi godono di ottima salute, in Italia e all’estero, Cosa Nostra, ahimè, sta guarendo in silenzio dalla ferite inferte negli anni dallo Stato. Che belle notizie eh!
Forse è anche per questo che il Procuratore capo della Direzione nazionale antimafia, Piero Grasso, aveva deciso in un primo momento di secretare la relazione 2009: in tutto 850 pagine fitte fitte dello sporco più sporco del Bel Paese. Le sto leggendo da giorni e giuro che ogni pagina è una pugnalata. Ogni pagina è una conferma che mentre i nostri politici parolai vomitano parole, le mafie fanno affari, corrompono, uccidono e strangolano la società italiana. Un tempo, in questi periodi di “depressione giornalistica” mi bastava guardare in tv Bossi o Borghezio, Di Pietro o Di Gregorio, Mastella o Berlusconi, Prodi o Veltroni, Storace o Brambilla e via cabarettando e mi tornava il buonumore. La loro innata comicità cancellava in me ogni tristezza. Oggi non è più così: ho fatto gli anticorpi e credo che dovrò ricorrere ad un bravo professionista della medicina per non lasciarmi andare al senso di sconfitta.
Cari amici di blog, questo è il primo di una serie di post che dedicherò alla relazione della Dna, un testo che meriterebbe di entrare in tutti i programmi scolastici ma l’occhialuta sexy-ministra Gelmini ha altro a cui pensare! Laddove non interviene lo Stato qualcosa i giornalisti (finchè i poltici non li aboliranno per legge dopo averli cancellati di fatto) possono ancora fare. Io, almeno, ci provo.
PALERMO RESTA LA CAPITALE DELLA MAFIA E DETTA LEGGE
Quando il sostituto procuratore antimafia Roberto Alfonso ha consegnato le 17 pagine su Cosa Nostra al suo capo Piero Grasso, avrà sicuramente condiviso con lui gioie e dolori di quelle pagine che non lasciano adito a dubbi anche se lasciano le porte aperte alla speranza. Ma chi di speranza vive…
A partire dal ruolo – mai messo in discussione – di Palermo capitale della mafia e dalla sua capacità di rispondere alle sconfitte (innumerevoli) subite negli ultimi anni dallo Stato. “Ciò non significa – precisa infatti la relazione della Dna scritta da Alfonso – che Cosa Nostra non riesca a mantenere il controllo sulle attività economiche, sociali e politiche del territorio, continuando a utilizzare le vaste reti di fiancheggiatori, il sistema dell’estorsione, l’inserimento nel settore degli appalti pubblici e più recentemente nei settori della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli e in quello delle sale da gioco lecito”.
Cosa Nostra – proprio a partire da Palermo – si “’ndranghetizza”, va cioè a scuola delle cosche calabresi e ne assorbe le regole di inviolabilità. In una parola: torna all’antico costume per riappropriarsi della forza persa a opera dello Stato.
“La ricostruzione di Cosa Nostra – scrive infatti Alfonso – è stata finora realizzata mediante la riorganizzazione delle strutture interne e della catena di comando, ponendo a capo delle varie famiglie e dei mandamenti, reggenti temporanei, scelti su indicazione dei vecchi capi ancora in carica sebbene detenuti”. In tal modo Bernardo Provenzano – il cui ruolo emerge in tutta la sua straordinaria forza nonostante sia stato assicurato da anni alla Giustizia – ha riservato a un gruppo ristretto di persone a lui vicine gli affari, i rapporti esterni e le strategie generali dell’organizzazione. Ha affidato la direzione strategica e operativa di Cosa Nostra a un direttorio.
La forza e la vitalità di Cosa Nostra – che grazie al patto con la ‘ndrangheta sta riacquistando un ruolo anche nel narcotraffico – stride con la rivolta sociale e imprenditoriale che pure la relazione della Dna non manca di mettere in luce. Anzi: è una rivolta che va sostenuta e incentivata giorno dopo giorno.
LA RIVOLTA
DEGLI IMPRENDITORI E’ POCA COSA
Ciononostante sono molti i conti che non tornano. “Non va sottaciuto che molti imprenditori che pagano il pizzo – scrive Alfonso – temono più le minacce di Cosa Nostra che le sanzioni di Confindustria. L’espulsione dall’associazione di categoria, in realtà, non ha sempre una sicura efficacia deterrente trattandosi di una sanzione che incide meno della minaccia mafiosa nel comportamento dell’imprenditore”.
Anzi, continua Alfonso, l’esperienza giudiziaria consente ormai persino di distinguere i comportamenti degli imprenditori che, di seguito elenco:
1) alcuni non accettano il rischio o non iniziano l’attività e se l’hanno già iniziata la interrompono definitivamente;
2) altri valutano l’opportunità di trasferire altrove l’attività (sempre che questa lo consenta e sia possibile farlo):
3) molti prestano acquiescenza alla pretesa dell’associazione mafiosa, assorbendone i costi ulteriori e “negoziando” con i criminali:
4) altri, non pochi, pur di ridurre o annullare completamente i costi aggiuntivi derivanti dalle pretese di Cosa Nostra, accettano logiche di contiguità e di collaborazione;
5) alcuni, pochissimi, tentano di opporsi e di resistere alle richieste delle organizzazioni criminali, accollandosi gli oneri aggiuntivi derivanti dai danni subiti: danneggiamenti, furti, incendi etc.
Il fenomeno estorsivo non è arretrato di un millimetro ed è davvero esiguo il numero delle denunce presentate da imprenditori e commercianti in proporzione al numero dei reati commessi ai loro danni. “Molti imprenditori – si legge nella relazione a pagina 93 – continuano a non denunciare, a non collaborare nemmeno quando l’autorità giudiziaria li mette in condizione di farlo senza esporsi direttamente e continuano a non darsi minimamente pensiero del fatto che con la loro reticenza espongono a rischi gravissimi quei pochi imprenditori che, fra mille, con uno scatto di dignità e di coraggio, hanno denunciato gli autori del reato subito”. E giù con l’accetta. “Sia chiaro che è la reticenza dei più – scrive Alfonso – della quasi totalità, che rende infinitamente più grave e concreta la situazione di pericolo in cui vengono a trovarsi i rarissimi imprenditori che si rifiutano di sottostare alle richieste delle organizzazioni criminali e che denunciano i fatti e gli autori di essi alle Autorità giudiziarie”.
Non solo denuncia, però, nelle pagine del sostituto procuratore Alfonso ma anche suggerimenti (che ovviamente verranno ignorati dal nostro illuminato Legislatore) per rendere più incisiva la collaborazione tra Stato e imprese. A partire dall’istituzione di premi e incentivi a favore degli imprenditori che collaborano e sanzioni di varia natura per chi cede ai ricatti. Ma la proposta rivoluzionaria è quella di condizionare il rilascio di licenze o la partecipazione a gare all’assunzione, da parte dell’imprenditore, dell’obbligo di “denunciare”.
A questa proposta aggiungerei quella – personale – di incentivare associazioni e movimenti come Addio Pizzo che rappresentano, con il loro commovente impegno, un esempio per la politica parolaia.
PIERO MARRAZZO: IL BELL’ADDORMENTATO…SULLA RELAZIONE
Proposte, tutte, che meritano di essere discusse e non di essere chiuse a chiave nei cassetti della Direzione nazionale antimafia. Ma evidentemente qualcuno pensava, in un primo momento, che secretare sarebbe servito: un brutto vizio che ha contagiato anche quello che una volta era un giornalista. Parlo di Piero Marrazzo, Governatore della Regione Lazio, figlio del mitico Joe, a sua volta giornalista di rango, di cui “bevevo” in tv i servizi da ragazzo come acqua di limpida sorgente, sulla cui testa Cosa Nostra e la Camorra avevano messo una taglia. Marrazzo parla, parla, parla, parla…Non perde occasione – anche il 20 marzo alle agenzie – per dichiarare che a Roma e nel Lazio la Camorra è
un problema (ma va!). Intanto che lui ammaliava e ammalia le folle e i cronisti, la Commissione regionale contro la criminalità organizzata (ne ho scritto sul Sole-24 Ore, edizione di Roma mercoledì 28 gennaio e lo stesso giorno anche su questo blog) gli ha consegnato una relazione sulla penetrazione delle mafie in regione, a partire dai tentacoli che stringono il Basso Lazio: Fondi, Minturno e via di questo passo.
Quella relazione è chiusa da oltre due mesi nel suo cassetto, ma intanto Marrazzo parla, parla, parla, parla… Governatore Marrazzo si ricordi di essere stato un tempo un giornalista e smentisca – se può – il detto (che tale in realtà non è) che l’informazione è potere. Non usi l’informazione a fini politici e la condivida con chi vuole fare della lotta alle mafie nel Lazio una ragione. Di vita, politica e sociale. La trasparenza è conoscenza e la conoscenza è democrazia e capacità di scegliere e motivare le scelte. Allora Marrazzo? Che fa? Parla, parla, parla, parla… o (ri)concilia con l’informazione?
roberto.galullo@ilsole24ore.com