Da lunedì scorso – come sanno i più affezionati lettori di questo umile blog che seguono le mie peripezie anche sul Sole-24 Ore di cui sono inviato – mi trovo in Calabria.
Ho seguito prima la vicenda della bomba piazzata sotto gli uffici giudiziari della Procura generale e poi, mentre stavo ancora cercando notizie a Reggio Calabria, sono stato catapultato dal direttore in fretta e furia a Rosarno dove gli extracomunitari si sono ribellati per poche ore allo strapotere delle cosche Pesce e Bellocco. I rosarnesi no, non si sono ribellati ma hanno solidarizzato in massa (eccezioni a parte) con gli agitatori delle folle spediti lì ad arte dalle cosche.
Tanto a Reggio quanto a Rosarno mi sono imbattuto nel volto della ‘ndrangheta. Quella in cravatta e doppiopetto a Reggio e quella sporca e violenta a Rosarno. Nessuna differenza. Il ferreo controllo del territorio, in Calabria, ha bisogno di entrambi.
Ma andiamo con ordine e, se avrete la pazienza di seguire quanto scrivo, troverete delle storie interessanti, che non ho raccontato nelle decine di articoli che in questi giorni ho scritto sul Sole 24 Ore e sul Sole-24 Ore online.
I QUARTIERI DI REGGIO CALABRIA SOTTOPOSTI A DITTATURA
Per capire cosa sta succedendo a Reggio, oggi, mentre io scrivo e voi leggete, bisogna partire da una storia paradigmatica che, dunque, meglio di ogni altra cosa è in grado di descrivere la dittatura militare delle cosche che si dividono rigidamente ogni angolo di questa splendida città. Una dittatura alla quale i reggini ormai non provano neppure a ribellarsi, al punto che le due manifestazioni di solidarietà organizzate per la Procura generale sono state un drammatico flop. Alla prima manifestazione, organizzata da Libera, si e no 150 persone. I fedelissimi insomma. Alla seconda, che pure poteva contare sul tam tam del Comune, dei sindacati e dei partiti, si e no 500 persone. Sapete quanti abitanti conta Reggio Calabria? Ve lo dico io: 186.233.
LE COSCHE INDIVIDUANO I RAPINATORI, LO STATO NO
Bene la storia, che mi è stata raccontata da chi sta investigando con enorme fatica cercando di rompere il muro di omertà, è questa. Due furfantelli dell’Est, assolutamente slegati dalle cosche, hanno la sventurata idea di compiere una rapina in un ufficio postale. Uno viene casualmente preso da una pattuglia dei Carabinieri, l’altro riesce a scappare. Nella notte accade, nello stesso quartiere, una cosa che ha dell’incredibile.
Una bottiglia incendiaria preparata da qualche improvvisato quaquaraqua senza alcun collegamento con le cosche, qualche altro cane sciolto che voleva mettersi in mostra, colpisce le saracinesche di uno storico rivenditore, presente sulla piazza da 50 anni. Insomma, un’istituzione.
Due episodi, tra il giorno e la notte, di disturbo alla quiete imposta dalla cosca del quartiere: troppo. Intollerabile. Bisognava reagire.
E così parte la giustizia del boss. Il giorno successivo vengono trovate due auto incendiate: una era del rapinatore dell’est catturato, l’altra del suo complice sulle cui tracce le Forze dell’Ordine si erano invano messe. Lo cercano dopo questa insperata imbeccata ma non lo trovano più. Sparito.
Lo stesso giorno un emissario del boss si reca dal proprietario dello storico esercizio commerciale e lo rassicura: continua a pagare noi e non rivolgerti allo Stato, qui la Giustizia siamo noi. E chi è stato a compiere l’attentato allora, chiede il meschineddu? Stai tranquillo, non c’è più, è stata la risposta dell’emissario.
Questa è Reggio Calabria, anno domini 2010. E, come saprà chi ha letto i miei reportage sul Sole-24 Ore, non sfuggono alla ‘ndrangheta neppure i lavori per il nuovo Palazzo di Giustizia. Incredibile direte! No, assolutamente normale.
LA BOMBA ALLA PROCURA E IL VOLTO “PULITO”
DELLA MAFIA NEI PALAZZI
Della bomba alla Procura è stato detto (quasi) tutto e (quasi) di più.
Una cosa non è stata dett
a. Non è provata purtroppo, ma è una di quelle storie che si tramandano di bocca in bocca tra magistrati, investigatori di alto livello e ufficiali di alto grado. Insomma una di quelle storie sporche che sono verosimili o vere, come è vero che per la Giustizia italiana il beatificando Bettino Craxi era un latitante. Per la famiglia un esule.
Una storia ad altissimo tasso di veridicità che, vedrete, nei mesi lascerà sul campo qualche vittima. No, non pensate a episodi cruenti, no. Qualcuno sarà trasferito da un ufficio all’altro e in questo modo il ministero della Giustizia, il Viminale, il Csm, lo Stato si saranno ripuliti la coscienza sporca.
Bene, la storia racconta che la bomba in Procura sia stata piazzata sì per mandare un messaggio a chi ha intenzione di fare processi in appello senza sconti alcuni e a chi ha intenzione di continuare a prosciugare il ricchissimo portafoglio delle cosche. Ma sia stata messa anche per avvertire alcuni esponenti di spicco di quel Palazzo (in particolare tre persone, di cui una amichevolmente chiamata “Al Capone”) che devono fare di tutto, in nome di una vecchia e consolidata “amicizia”, per invertire quella svolta giudiziaria e amministrativa, altrimenti…E c’è chi racconta che alcuni di questi “amici” che non possono tradire la causa siano di vecchia e consolidata tradizione familiare considerati “amici”.
IL PROCURATORE “PIT STOP”
Questa è Reggio, anno Domini 2010, anno in cui investigatori che rischiano ogni giorno la vita per acciuffare boss, latitanti e luridi ‘ndranghetisti da quattro soldi, ti raccontano che avevano soprannominato un precedente Procuratore capo “Pit stop”.
A metà settimana, regolarmente e abitudinariamente, si recava in un’officina delle Forze dell’Ordine per fare rifornimento, fare un check up generale alla macchina blindata e via, allontanarsi fuori città per andare a trovare chissà chi. Lo stesso “Pit stop” che, durante un cambio di olio, alla richiesta di un investigatore che solo in quel modo e in quella circostanza sapeva di potergli parlare, di applicare misure preventive a un imprenditore in odore di mafia, rispose: “Ora debbo partire me ne parli domani”. Addio “Pit stop” e che il dio criminale delle cosche ti abbia nel fuoco eterno.
LA PIPì DI ROSARNO SCATENA IL BOSS
Non so se siete mai stati a Rosarno. Io ci sono stato tre volte in 3 anni. Una volta con mio figlio, che mi sono trascinato dietro in un’occasione di lavoro affinchè si rendesse conto che l’Italia è anche questa. E affinchè si rendesse conto che quel pezzo di Italia, mafiosa e criminogena, sta risalendo la Penisola. Spetta a lui, a tutti i giovani, fare in modo che il metodo Rosarno non attecchisca ovunque. Forse, però, è già troppo tardi.
Bene. Rosarno è una città che sembra Beirut dopo i bombardamenti. No, non per quello che hanno combinato i rivoltosi. No. Le strade di Rosarno sono un enorme buco con l’asfalto intorno. I palazzi di Rosarno sono enormi scheletri con degli abitanti dentro, spesso a vista perché mancano anche le finestre. I negozi di Rosarno sono scatole appese a palazzi mai terminati e arrugginiti. Le vecchie fabbriche di Rosarno, molte costruite rubando i soldi della legge 488 e poi abbandonate, sono ricettacoli di disperati. I Palazzi del potere e delle Istituzioni di Rosarno, Polizia, Comune, Carabinieri, etc, sono vecchi, scrostati, scandalosamente brutti. La gente di Rosarno, so che per questo sarò odiato ma racconto ciò che vedo e ricordatevi che delle minacce me ne fotto, è per la gran parte (ci sono, per carità, tante bravissime persone) assuefatta alla cultura ‘ndranghetista. Un brodo che tutto avvolge e nel quale i rosarnesi, che sono in numero nettamente inferiore alle armi che posseggono, navigano con piacere. Chi non ce la fa e schifa quel mondo, fugge. Lontano. Lontano da chi, con la storia dei braccianti e dei terreni agrumicoli, ha frodato miliardi allo Stato, alla Ue e all’Inps. Cioè a tutti noi. Altro che rivolta dovrebbero fare i rosarnesi, i calabresi e gli italiani onesti!
Per 25 anni i rosarnesi anni hanno tollerato, sfruttato all’inverosimile, bastonato i neri chiamati per la raccolta degli agrumi. Li hanno vessati – come testimoniano le inchieste della Procura di Palmi – e li hanno costretti a rivoltarsi. Tanto non hanno nulla da perdere: la loro vita vale zero.
Le cosche Pesce e Belloco sono state sorprese dalla rivolta dei neri, Ma sapete perché i neri sono stati impallinati (se li avessero voluti uccidere lo avrebbero fatto, ma gli ordini dei boss non erano quelli)?
La storia di popolo racconta che uno di loro abbia orinato (per sfregio? per sbaglio?) nel terreno di un boss. Da qui la rivolta, anche perché vox populi racconta che una donna delle cosche avrebbe assistito alla finestra alla scena e abbia preso il gesto come un affronto imperdonabile.
Sia vera o no questa storia, è stata solo ed esclusivamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso di uno sfruttamento indegno per un Paese che si voglia dire civile. I neri – ho visitato le loro baracche turandomi il naso per la puzza nauseabonda – pagano per vivere in posti in cui non vivrebbero
neppure i topi di fogna.
I VOLTI SPORCHI DELLA ‘NDRANGHETA
Ho girato in questi tre anni in lungo e in largo Rosarno. Le altre volte immaginavo di potermi trovare a colloquio e a contatto con persone legate alle cosche. Qualcuno di loro è stato poi arrestato e non me ne sono certo sorpreso. Qualcun altro è stato chiacchierato. Erano i volti “puliti” delle Istituzioni.
Questa volta no. Questa volta ho visto con i miei occhi e ho parlato con i ragazzi che alimentano con un serbatoio infinito la ‘ndrangheta delle cosche Pesce e Bellocco. Ho visto e parlato con i pregiudicati. Tutti, dico tutti, gridavano all’assenza dello Stato, al fatto che loro non erano razzisti e al fatto che i neri li accolgono come fratelli. Tutti, dico tutti e nella notte tra venerdì e sabato saranno stati almeno 200, ti urlavano di raccontare e scrivere la verità. La loro verità. Tutti, e dico tutti, quando te lo urlavano in faccia imbracciavano spranghe di ferro e mazze chiodate. Più in là, nascoste tra le campagne vicino all’ex oleificio abbandonato e all’ex agrumificio distrutto, bombe molotov e armi pronte a essere usate.
Questa volta li ho visti, li ho toccati sapendo benissimo chi vedevo e chi toccavo. Qualcuno di loro, dopo avermi riconosciuto al punto da dirmi chi ero e per quale giornale scrivevo, mi ha intimato di andarmene e per sincerarsene, alla fine dei miei giri, mi ha scortato con discrezione fino al taxi. Ho provato a chiedere ai più carismatici, ai capetti, a qualche anziano che il giorno dopo gli era accanto, perché non manifestavano contro le cosche che qui opprimono tutto e tutti. Identica la risposta: “Rosarno non è un paese mafioso”. Certo e io sono San Giovanni Battista patrono di Rosarno. Il 24 giugno magari mi portate in processione.
E che Rosarno non è mafiosa te lo dicevano ancora urlando, maledette urla. “Urlo – mi dice uno di loro che nega di presentarsi, mentre sono a colloquio con l’onorevole Elio Belcastro dell’Mpa e l’onorevole Saverio Zavettieri (Socialisti uniti) che sono venuti a fare un giro da queste parti per far capire da che parte stanno – perché tutti mi devono sentire”.
Devono sentire forte e chiaro tutti quelli che attendono ordini e che devono sapere chi e come detta la linea. E con chi si sta parlando in quel momento è importante: i media.
La ‘ndrangheta è stata violata, la ‘ndrangheta ricorda a tutti qual è la giustizia, l’unica che deve regnare sul territorio. Sull’intera Calabria.
Una giustizia che ha due volti: uno pulito ma sporco dentro e l’altro sporco fuori e ancor più sporco dentro.
roberto.galullo@ilsole24ore.com