Siete caldi? Siete pronti? Come a cosa? Ai fuochi di artificio a Reggio Calabria ora che Giuseppe Pignatone aspira a essere il decimo Re di Roma diventando capo della Procura capitolina (l’ottavo era il divino Falcao e per adesso regna il nono, Francesco Totti) e che la sua amina gemella, Michele Prestipino*, andrà verosimilmente in Abruzzo come capo della Procura dell’Aquila (a meno che non si accodi a Pignatone nella risalita della Penisola, impresa finora riuscita, ripartendo dalla Sicilia come loro due, solo a Garibaldi e neppure al generale americano George Smith Patton).
Una regione, l’Abruzzo, dove ha già lavorato e dunque Prestipino sa che ritroverà quattro ingredienti che permeano l’essenza stessa della miscela esplosiva in Calabria: massoneria (che anche negli uffici giudiziari è di casa), ‘ndrangheta (che nel post ricostruzione dell’Aquila si è infiltrata soffiando il posto a Cosa nostra e battendosela con la camorra), malapolitica (le inchieste giudiziarie sono come le ciliegie, una tira l’altra) e corruzione (mai ai livelli della Calabria ma comunque se la cava molto bene).
Ahilui, gli mancherà il quinto ingrediente: la miccia e, al tempo stesso, il collante. Quale, direte voi? Ma i servizi segreti deviati, core mio!
Se può consolarvi sappiate che stanno alacremente lavorando – e da tempo – per preparare il terreno a colui che prenderà il posto della coppia di vertice che dalla Sicilia veniva. Ovviamente i fuochi d’artificio, che saranno vere e proprie “bombe”, saranno piazzate al momento giusto lungo la strada che porta al Cedir. Dossier falsi, carte manipolate, stralci di documenti incriminatori, guerre interne, denunce vecchie e nuove, sono pronti a volare da un ufficio all’altro non solo del Palazzo di Giustizia. Questa volta neppure i corvi entreranno in azione: direttamente gli avvoltoi sono stati messi in circolo, pronti ad avventarsi sulla preda che sarà lasciata sola a diventar, da candidato indesiderato, a carogna da spolpare.
Ho detto e scritto bombe e avete capito e letto bene. No, non serviranno a uccidere, almeno spero, ma – che siano annunciate, come quella che sarebbe già stata sparata dal bazooka fatto ritrovare al Cedir o come quella esplosa sotto casa del Procuratore generale Salvatore Di Landro o che siano fatte solo di parole – deflagreranno in maniera esplosiva.
Pensate voi che Reggio Calabria potrebbe permettere il ritorno di Enzo Macrì o Roberto Pennisi? Pensate voi che avrebbe potuto permettere l’ascesa interna, 4 anni fa, di Salvo Boemi, pensionato nel “migliore” dei modi? Ma in che mondo vivete? Nossignori ed infatti tanto per gradire sappiate che al primo hanno già lanciato qualche polpetta avvelenata. Si tratta – giusto per servire un aperitivo della pregiata casa – della storia della barca che avrebbe ormeggiato presso il rimessaggio di Antonio Spanò, considerato dagli inquirenti prestanome di Luciano Lo Giudice in cui, ma questo non frega una cippa a nessuno, la tenevano praticamente tutti. Peccato, comunque, che Enzo e suo fratello Carlo la barca non ce l’avessero ma chissenefrega! Pinzillacchere, quisquilie. L’importante è buttare fango nel ventilatore. Vatteli a togliere poi tutti gli schizzi se riesci!
Per Pennisi sono pronte rivelazioni a orologeria non appena tirerà fuori il suo profilo greco dall’ufficio romano della Dna per tentare la scalata a Reggio. Per il momento non da fastidio. Per il momento.
Alberto Cisterna è fuori dai giochi. La magistratura (salvo eccezioni) lo ha lasciato solo ad affrontare la valanga di fango che lo ha investito in questi anni. Eh sì perché la macchina si è messa in moto da almeno 10 anni – ammesso che sia vero quel che ha rivelato, e non sta certo a me dirlo, il pentito Antonio Di Dieco in un memoriale di cui questo umile e umido blog ha dato conto anche il 23, 24, 25 e 26 gennaio – ma ha accelerato poco più di un anno fa con una strategia della tensione sempre più alta che doveva servire a due scopi. Il primo: farlo fuori per sempre dai giochi, lui, il giudice “ragazzino” che 10 anni fa insieme proprio a Macrì, Pennisi e Francesco Mollace, si mise più degli altri in testa, forse per la giovanile irruenza, di dare nel tempo la caccia al “Supremo” Pasquale Condello riuscendo, con l’aiuto del Sismi, a farlo catturare. Uno sgarbo mortale che doveva essere pagato al prezzo più caro: l’onore. Via, macchiato per sempre. Ci saranno poi altri motivi per temere il ritorno di quella vecchia guardia di magistrati? E chi lo sa? Può darsi.
Il secondo: azzoppare il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso indebolendolo con i colpi ai fianchi (leggi Cisterna) e inducendolo a restare fuori dalla mischia. Obiettivi raggiunti: Cisterna è già tanto se riuscirà a salvare la pelle professionale e non levare le tende dalla Dna, visto che per lui – oltre alle indagini della magistratura reggina per corruzione in atti giudiziari che, sono convinto, si rivelerà un boomerang – si è aperto il procedimento disciplinare presso il Csm battuto dal vento delle inutili correnti della magistratura, forte con i deboli e debole quando bisogna tutelare i più forti che, prima o poi, ricambieranno il favore. Cisterna – se uscirà sconfitto – potrà sperare solo nell’oblio in qualche sede secondaria, a meno che non decida di scatenare una guerra.
A nulla sembra neppure che servano – da ultimo – le incredibili coincidenze tra quanto sembrava aver subito il Capitano dei Carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi in quel del carcere di Santa Maria Capua Vetere (vale a dire il tentativo, smentito dalla archiviazione di cui questo blog ha dato conto in esclusiva il 4 febbraio, di pressioni per inguaiare sempre di più Cisterna) e quanto avrebbe detto in confidenze raccolte proprio Luciano Lo Giudice e che sono state riportate ieri dal collega Consolato Minniti su Calabria Ora. In pratica anche Lo Giudice avrebbe detto di non sapere una cippa di Cisterna ma di avere avuto la sensazione che in Procura questo desse molto fastidio. A nulla serve – come ho scritto mille volte qui – che le dichiarazioni di Nino Lo Giudice siano contraddittorie, lacunose. rese fuori tempo massimo, smentite da altri pentiti e messe pesantemente in dubbio anche dalla Procura generale di Reggio. A nulla serve forse neanche il fatto che il pentito Antonio Di Dieco sembra che sia disposto ad un confronto all’americana con il nano-Nino per vedere chi mente: il primo, indagato a Reggio per calunnia, o il secondo, il collaboratore di giustizia più smemorato e veloce della Calabristan? E non serve a un picchio che non ci sia uno straccio di prova di arricchimenti o transazioni finanziarie. E a nulla serve – soprattutto ed è questa vera sconfitta – una carriera – per lui come per Pennisi, Boemi, Mollace e Macrì – fatta di successi (ma anche di dolorosissimi e sanguinolenti insuccessi contro la trimurti Condello-Libri-De Stefano) e della morte sul collo costantemente alitata dalle cosche. Tant’è: o
rmai Cisterna è uno zombie che cammina e questo è – per la miscela esplosiva che doveva farlo fuori in un modo o nell’altro – sufficiente.
Al netto di tutto questo – francamente – non capisco proprio perché qualcuno dovrebbero essere interessato a ricoprire quel ruolo.
E qui passo al ragionamento che coinvolge – in unicum – gli altri pretendenti, veri o presunti. Da Nicola Gratteri a Giuseppe Creazzo, da Mario Spagnuolo a Vincenzo Lombardo e forse qualcuno lo dimentico (ammesso e concesso che siano davvero interessati). Mi domando: ma a qual fine dovrebbero fare domanda e concorrere per diventare capi della Procura di Reggio? Non certo per terminare l’opera di Pignatone atteso il fatto che taluni (in primis Gratteri, senza contare quelli che, negli uffici del Cedir, neppure gli volevano parlare) giudicavano fallimentare la sua gestione nelle indagini su mafia-politica-colletti bianchi e talaltri (Lombardo) hanno preferito non prendere mai posizione prendendo così, di fatto, le distanze da quella gestione.
E allora per cosa e perché dovrebbero concorrere? Dovessi rispondere io direi: per spiegare al mondo – con i fatti, cioè con le indagini – che il vero capo della ‘ndrangheta non è don Mico Oppedisano ma che la cabina di regia della vera ‘ndrangheta – quella che accaparra risorse e le distribuisce, quella che vota e fa votare, quella che elegge e che viene eletta, quella che si fa classe dirigente e borghesia malata e magari anche Chiesa marcia – si annida là dove tutti sanno e nessuno osa cercarla: all’ombra delle logge di Stato. E pensate davvero che qualcuno possa farlo?
Nossignori miei. In Calabria nessuno può farlo neppure quando a scendere in campo è la coppia Pignatone-Prestipino che, ne sono ipercertissimo, ci avrà provato in ogni modo. Nossignori: la cupola non si tocca e non si deve toccare. E questo accade soprattutto perché – a differenza della Sicilia in primis e della Campania in maniera diversa – la società civile calabrese non parteggia e, quando lo fa, corre il rischio di provocare più danni che benefici. La società civile – a parte le lodevoli eccezioni che, tutte insieme, non riescono a raggiungere neppure il punto di coagulazione – dorme sonni profondi. Perché? Ovvio: perché è in ampi strati connivente e mendica briciole dal potere che ha già ucciso il futuro dei figli.
E accade perché la classe politica è – per gran parte – feto infetto e infettato della cupola che in Calabria tutto può. I parti della cupola mafiosa – qualunque cupola mafiosa – danno continuamente alla luce figli infetti che fanno carriera: ovunque, anche nella stampa e nella magistratura. Anche questo l’ho scritto e detto mille volte: la Calabria è persa per sempre e se anche il pm Carlo Caponcello (si vedano in archivio i miei post dell’8 e 10 febbraio) dice che la ‘ndrangheta è una presenza istituzionale, di che cosa stiamo parlando? In altre parole Caponcello scrive una cosa di una gravità assoluta: la ‘ndrangheta non è un convitato di pietra (come una certa pubblicistica e la gran parte della classe dirigente calabrese vogliono far credere). E’ un convitato – il più forte quando siede all’ombra delle logge di Stato – del tavolo ufficiale delle trattative socio-politico-economiche in regione (e sempre più anche fuori regione ma i settentrionali continuano a credere che sia “cosa loro”).
Per questo non capisco perché qualcuno si ostini davvero a scalare i piani alti di quel Palazzo di Giustizia: tentare l’impresa di scardinare le gambe moralmente marce di quel tavolo è impossibile. Nella migliore delle ipotesi ci si rinuncia, nella peggiore ci si lascia la pelle. Nella più dolorosa si viene menomati ma graziati, senza che venga sparato il colpo alla testa, in modo che la sofferenza sia non solo vissuta a vita ma visibile a tutti come imperituro insegnamento. Destino tragico: essere impallinati da quello stesso Stato, che siede in cima alla cupola, che dovrebbe allevare i figli migliori. E’ accaduto con Falcone. E’ accaduto per tanti altri costretti a vivere ai margini o abbandonare la toga.
Allora – direte voi – che cosa bisogna fare? Lasciare forse quella sede vacante? Bravi, proprio così: lasciare la sede vacante a tempo indeterminato.
Ma come? Non si può! E chi l’ha detto? Dove sta scritto? Se lo Stato – con i suoi apparati deviati che a Reggio dettano legge – gioca sporco e gioca contro la civiltà giuridica e la società civile sana, perché mai si dovrebbe combattere una guerra che si è destinati a perdere in partenza? Per cosa? Per chi? Questa terra – la Calabria – e questa Patria – l’Italia – non hanno bisogno di eroi da far saltare per aria o da sputare a terra. E’ già accaduto – in Sicilia e anche in Calabria oltre che in Piemonte anche se troppi lo dimenticano – e non è servito a nulla.
La guerra – signori miei – si fa quando le armi dei contendenti sono (almeno) le stesse. Se in partenza uno è più forte perché è dopato, perché bisogna gareggiare? O forse qualcuno di voi crede alla favoletta di Davide e Golia? Guardate che qui i cattivi sono tanti, ma proprio tanti. Non basta sconfiggerne uno.
Ergo: Pennisi, Gratteri, Spagnuolo e quanti altri voi siete o vorreste essere sulla linea della partenza, datemi retta. Perdete di vista il traguardo: concorrere per sedervi su una poltrona minata dallo stesso Stato che voi, con l’altra faccia pulita della medaglia, volete combattere, è suicida come attraversare bendati la linea di confine tra Israele e Palestina. Anzi, forse lì è più sicuro.
Lasciate vuota quella poltrona. Fino a che lo Stato con S maiuscola non si farà vivo. Sempre che qualcuno di voi e di noi sappia riconoscerlo.
* A novembre 2013 Prestipino è andato effettivamente a Roma come Procuratore aggiunto.
r.galullo@ilsole24ore.com
P.S. Potete acquistare il mio libro: “Vicini di mafia – Storie di società ed economie criminali della porta accanto” online su www.shopping24.ilsole24ore.com con lo sconto del 10% e senza spese di spedizione