Novantotto fascicoli attualmente sulla sua scrivania (98!), 250 detenuti in carico, tutti i pentiti del "mandamento-centro" da gestire (vale a dire Reggio Calabria e provincia, ergo: "la" ndrangheta) e 9 dibattimenti in corso di cui il più delicato è Meta, vale a dire un'altra pietra miliare nella storia della lotta alla cupola mafiosopoliticomassonicodeviata. Quella vera, non quella che si alimenta di frutta e verdura che – ne sono conscio financo io, bambino di modestissime capacità intellettive – in estate può aiutare la corretta alimentazione, agevolare l'eliminazione degli scarti (altresì detta diuresi) e, se corroborata da una massiccia dote di carote, aiutare l'abbronzatura.
Ecco a voi il carico (secondo voi normale?) che grava sulla scrivania e sulle spalle di Giuseppe Lombardo, 42 anni, reggino, figlio di magistrato (il padre era tra i pochi magistrati calabresi che si confrontava e consultava con Giovanni Falcone) e pm a Reggio. Il carico medio degli uffici della Procura reggina è infinitamente più basso del suo e mesi fa si toccò l'assurdo: alcuni sostituti procuratori si domandarono e si interrogarono l'un l'altro sulla maniera migliore con la quale dare una mano agli uffici giudizari visto che, insomma, il lavoro è (dis)uguale per tutti…ma per qualcuno di più!
Una famiglia – figli e moglie – che ve la possono dire lunga sui "folli privilegi" che spettano ad un vero magistrato antimafia: vita blindata per tutti dentro e fuori dalle mura domestiche h24. Che culo!
Una storia personale, la sua, che raccontarla è semplice: lavoro, lavoro e lavoro senza guardare in faccia a nessuno, continue minacce di morte (inutile dire che l'ultima è di poche settimane fa ascoltata in diretta dalla sala ascolto della Procura), due macchine (blindate) e non meno di cinque uomini di scorta. Che culo! Che invidia!
Una storia professionale che raccontarla è ancora più semplice: tra le sue mani passano (e passeranno) le vite marce della cupola mafiosa che governa Reggio Calabria. Ergo: la Calabria. Ergo: sempre più l'Italia (soprattutto in Lombardia, dove la cosca De Stefano alla quale dà la caccia da anni è padrona di traffici, carriere professionale e successi politici).
Non vi basta la vita di Lombardo? Bene, eccovi servita quella di Nicola Gratteri che – sebbene dietro le spalle sia accusato di protagonismo mediatico e scarsa cultura dai codardi, tra i quali molti colleghi, che ovviamente non hanno il coraggio di dirglielo in faccia – è un altro magistrato antimafia iperblindato e iperminacciato, con due attributi grandi come due mongolfiere. Lavora in silenzio salvo poi far esplodere la flagranze delle sue indagini con le quali – come ha ricordato recentemente lui stesso – ha sequestrato e perseguito più droga e narcotrafficanti lui che tutto il resto d'Italia. Potete dargli torto se poi cerca di pubblicizzare quel che ottiene per il bene della collettività? Vi pare poco? A me pare tantissimo visto che in Italia e nel mondo il narcotraffico è volutamente un argomento eluso perchè grazie ai soldi che genera è possibile corrompere e acquistare tutto. Solo due giorni fa – per darvi un'idea del volume d'affari che genera – a Vigevano (Pavia) è stato sequestrato un banalissimo camion con 1.400 chili di banalissima hascish. Valore al dettaglio: 14 banalissimi milioni di euro!
Perchè vi racconto tutto questo? Queste storie – e attenzione so perfettamente che ce ne sono di simili in tutta la regione – mi serve per calarmi nel ragionamento che sto conducendo con voi, amati lettori di questo umile e umido blog, sull'emergenza democratica in Calabria (si veda in archivio la prima puntata del 5 settembre).
Scrivo questo non per esaltare il lavoro di pochi (o molti) ma per contrapporre il legittimo impegno a favore della democrazia all'illegittimo scontro ai danni dei cittadini, cioè della democrazia.
Vedete, fuori dai riflettori di Reggio Calabria (dove la 'ndrangheta esiste eccome ma deve sempre fare la conta con la "mamma" reggina) i contrasti (pur violentissimi) all'interno delle Procure e tra le Procure si attenuano salvo quando toccano fili che non vanno toccati. E' quanto – ad esempio – è successo recentemente a Giginiello 'o sciantoso che da quel di Catanzaro voleva dichiarare guerra – in un sol colpo – alla cupola che governa la regione e mezza Italia. Che fine ha fatto abbiamo visto.
Dentro Reggio – invece – tutto esplode e se esplodono i contrasti nella Procura di Reggio e tra quest'ultima e pezzi vitali dell'amministrazione della Giustizia (a partire dalla Dna) e della stessa società civile, è un motivo in più perche l'intera regione soffra un'emergenza democratica (come sostengo da anni e ribadisco con questi articoli). Diceva ai suoi un politico di lungo corso Dc come Francesco Covello: "Governate la Calabria ma non provate a governare Reggio".
Sono stato per lunghissimo tempo il solo giornalista critico – a livello nazionale e sfido chiunque a dimostrare il contrario – nei confronti della Procura di Reggio Calabria. Cosi come nessun (e dico nessun) magistrato e/o investigatore ha mai aperto per anni bocca dentro e fuori Reggio (segno evidente che si era raggiunta la perfezione nell'amministrazione della Giustizia). Così come nessun (e ripeto nessun) politico ha mai fiatato su quella Procura. Così come nessun esponente della cosiddetta società civile (ripeto nessun esponente) ha mai dato fiato a trombe critiche: tutti e dico tutti alineati e coperti (segno che anche la politica e la società civile si sentivano protetti dallo stesso scudo).
Un consenso che manco in Bulgaria e – debbo essere sincero – mi sono a lungo interrogato se non fossi davvero un deficiente ad essere io così critico e scettico.
Nessun personalismo ovviamente. Nessun pregiudizio (cosa che peraltro non mi accade mai altrimenti non sarei un giornalista ma un giornalaio, come queli che reggono la coda alle Procure).
Ho riconosciuto alla Procura di Reggio – e riconosco tuttora – la capacità di aver saputo colpire (anche in collaborazione fattiva con altre Procure) la 'ndrangheta militare.
Ho notato e noto però – è una constatazione – che la cupola mafiosapoliticomassonicodeviata che si era fatta classe dirigente in loco e altrove, come era tale è rimasta. Anzi: si è rafforzata. Questo in onore al principio – più volte espresso dai più fini analisti ed esegeti della lotta alle mafie a partire dal raro genio intellettuale di Roberto Scarpinato – che le mafie da tempo non sono principalmente nè Oppedisano, nè Riina nè Provenzano. Le mafie sono un puzzle in cui Cosa nostra e la 'ndrangheta sono tessere di una cupola in cui le menti raffinatissime provengono da altre e diverse estrazioni: politica, professioni, magistratura, pezzi marci dello Stato, massoneria deviata.
Sul fronte della lotta alla cupola raffinatissima mi sarei aspettato di più, tutto qui. Mi sarei aspettato che – qui come in tutto il sud – le energie della magistratura fossero dirette se non esclusivamente, quasi tutte verso la distruzione di quella cupola. Non è un'accusa (non spetta a me formularne) è un'analisi giornalistica come vedete a 360 gradi. Pensare che la 'ndrangheta sia un venditore ottantenne di verdure nella Piana di Gioia Tauro e che il Totò Buscetta calabro in grado di far penetrare la Giustizia nei meandri della cupola mafiosa calabrese sia Nino Lo Giudice rivolta da sempre la mia coscienza. Pensare che il numero due della Dna Alberto Cisterna sia corrotto, che i fratelli magistrati Macrì abbiano chissà cosa da nascondere e che il sostituto pm (
ancora in Dna) Roberto Pennisi abbia chissà quali scheletri nell'armadio è qualcosa che mi fa star male nell'anima conoscendo come pochi le loro storie professionali.
Per anni ho letto – in successione – le bombe alla Procura generale di Reggio Calabria, al Cedir e in casa del procuratore generale Salvatore Di Landro con occhi lontani dalle sirene e dalle veline. Sono stato il solo giornalista a ribadire a livello nazionale – e continuo a pensarlo ancora oggi – che la bomba nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 era destinata al nuovo corso della Procura generale prendendo spunto dalla gestiione del cosiddetto processo Rende.
Negli ultimi anni sono stato l'unico giornalista a livello nazionale a parlare di una strategia di menti raffinatissime (la vera mafia) nel polverone acceso "con" il nano-Nino, grazie alla quale la cupola reggina ha potuto non solo governare, non solo garantire salvacondotti a tutti i politici che ha creato negli ultimi 25 anni e non solo lanciare o rilanciare carriere strepitose ma anche ampliare i propri orizzonti.
E oggi – grazie alla riapertura delle indagini sull'omicidio del giudice Nino Scopelliti sul quale tornerò presto con nuove rivelazioni – vedo molte cose ancora più nitidamente.
Certo che posso sbagliarmi, altro che! Certo che le mie analisi possono essere sbagliatissime, altro che! Sono un bambino di modestissime capacità intellettive ma quando ho visto quell'informativa sulla libertà di stampa della Polizia e dei Carabinieri di Reggio Calabria ho capito un mondo intero (si veda in archivio il mio post del 27 luglio 2012).
Per anni questo movimento critico di atti e fatti è stato appannaggio solo ed esclusivamente di chi scrive. Ergo nessun "movimento" ma solo un pazzo e/o imbecille (sì, ma non manovrabile da alcuno) che ragionava (magari sbagliando) ma con la propria testa. Per anni ho detto che quel vulcano apparentemente addormentato che è la Procura di Reggio Calabria avrebbe eruttato nuovamente travolgendo con la sua "lava" di nuovo molti se non tutti. Gli articoli in archivio di questo blog non sono chiacchiere ma testimonianze di ciò che scrivo. Per questo posso permettermi di scrivere in questo articolo quel che vi racconto.
Il vulcano – alla fine – ha eruttato. Facile profeta. Facilissima profezia. Gli scontri durissimi con strascichi che dureranno ancora a lungo tra i vertici della Procura e pm della Dna, tra quest'ultima e alcuni sostituti, tra magistrati della Dna e Procura di Reggio e Catanzaro, tra quella di Reggio e quella di Catanzaro e via di questo passo sono apparsi – per i più – all'improvviso sulla scena. Prima nessuno si era accorto di niente! Minchia che fini analisti! Tutti allineati e coperti: la democrazia si sentiva al sicuro.
Io no.
Da quel momento – sintetizzo estremamente – si sono rotte le acque e si è assistito dapprima a una rilettura della famosa operazione "Crimine/Infinito" corsa sull'asse Reggio Calabria-Milano da parte di settori sempre più importanti della magistratura (ricordo a memoria i nomi di Carlo Caponcello, Nicola Gratteri che pure sostenne la pubblica accusa, Roberto Pennisi, Enzo Macrì, Armando Spataro che è stato duro come nessuno) e poi dei soliti non allineati del giornalismo locale, tra i quali mi piace annoverare Lucio Musolino (Corriere della Calabria e Fatto Quotidiano) e Consolato Minniti (Calabria Ora).
E la politica? Mai una parola chiara per anni. Sempre mezze frasi, mezze parole oppure – privatamente – da parte di pochissimi una valanga di veleni, sospetti mai resi pubblici. Poi la solita Angela Napoli della Commissione parlamentare antimafia comincia a chiedere di vederci chiaro in quei devastanti scontri all'interno della magistratura romana, reggina e calabrese. Gli altri? Allineati e coperti.
E la società civile? Zitta e mosca. Salvo leggere – questa settimana – una nota associazione che spara a zero contro gli scontri in atto. Faccia di tolla!
Trovo tutto ciò profondamente ridicolo ma anche drammaticamente serio perchè mentre nel frattempo qualcuno ha provato ad alzare la testa contro il "pensiero unico", quella cupola mafiosopolitocomassonicodeviata ha lavorato ancora per mettere tutto a tacere, mettere la polvere sotto il tappeto e lavorare affinchè nulla cambi. L'epicentro di questa strategia – come sempre, come prima e più di prima – è nelle stanze del potere romano, dove le menti raffinatissime che arrivano da ogni dove non smettono mai di rinfoltire la truppa.
Ora – a scompaginare di nuovo le carte – un politico che non ti aspetti: Aurelio Chizzoniti, pur estroso ex presidente del consiglio comunale di Reggio Calabria per nove anni, consigliere regionale (per ora) mancato, conoscitore del mondo e fine giurista. Ha fatto saltare il banco muovendo accuse gravissime contro la Procura di Reggio Calabria per la gestione del cosiddetto caso Antonio Rappoccio, consigliere regionale di centro destra arrestato dopo che l'indagine fu avocata dalla Procura generale (si vedano i post in archivio del 29, 30, 31 agosto, 1 e 2 settembre) ma con accuse devastanti che vanno ben oltre quel caso ed entrano nel cuore della democrazia.
La solita Napoli si è rifatta viva (si vedano quegli articoli da ultimo citati) e per il resto un vuoto pneumatico, anche tra la società civile. Segno – inequivocabile – che per la politica tutta (dalla destra alla sinistra passando per il centro) e per la società reggina, nella Procura di Reggio non ci sono problemi e neppure tra i magistrati. Figuriamoci tra la Procura ordinaria e quella generale! La gestione è ed è stata la migliore possibile. E quanto al Csm non è pervenuto. Va tutto bene madama la Marchesa e che Dio voglia che continui così!
Ripeto: posso sbagliarmi io. Anzi: ne sono certo.
Concludo. Così come nel precedente post chiedevo che la Calabria viva presto una stagione di affiancamenti da parte dello Stato centrale nella gestione della cosa pubblica, così – mutatis mutandis – chiedo (anzi: chiedo nuovamente): ma non sarà il caso che la Procura generale della Cassazione e/o il ministero della Giustizia facciano una capatina laggiù per vedere cosa sta succedendo da anni? Non sarà il caso che il Csm ci veda chiaro? Non sarà il caso che i primi a pretenderlo siano i cittadini calabresi e reggini in particolare? Non sarà il caso che la politica tutta si interroghi se questi devastanti conflitti all'interno dell'amministrazione giudiziaria rappresentino o meno un'emergenza democratica? Chi c'é (ammesso che qualcuno ci sia) batta un colpo.
A presto.
r.galullo@ilsole24ore.com
2- to be continued
(la precedente puntata è stata pubblicata il 5 settembre)