Se non seguite le cose reggine (ahimè, io sono costretto a farlo) non potete sganasciarvi dalle risate (amare) come sto facendo io da giorni.
Dovete sapere che il 18 settembre un manipolo di persone variegate quanto può esserlo un ghiacciolo arcobaleno, ha presentato un manifesto che recita così: “Reggio rivendica il suo ruolo”.
Il ruolo – sembra di capire – non è solo bellezze naturali ma anche “cultura, eccellenze lavorative, imprenditoriali, professionali, scolastiche che danno lustro all'intero Paese nella ricerca, nell'arte, nell'economia, nella pubblica amministrazione, nella medicina e in tutti gli altri settori del vivere civile. Reggio è accoglienza, associazionismo e volontariato: un patrimonio che rappresenta al meglio l'anima e la ricchezza della nostra comunità”.
Per questo i “manifestanti” che manifestano con un manifesto, ritengono “ingiusta la campagna di diffamazione che criminalizza un'intera città non distinguendo tra i delinquenti e le decine di migliaia di persone oneste che quotidianamente si spendono per affrontare ogni tipo di avversità e che sono le prime vittime di questa violenza”.
Ora a parte il trascurabile fatto che non si capisce con chi ce l’abbiano e chi non distinguerebbe fra criminali e persone oneste (forse i cerebrolesi ma se così fosse sarebbe irrispettoso e squallido indirizzare proprio a loro il manifesto), quel che stride quanto un gessetto sulla lavagna è la conclusione: “Reggio è una città normale che vuole proseguire nel suo cammino di crescita e sviluppo nel rispetto delle istituzioni democratiche. Non si speculi sulla nostra pelle e su una Terra che da sempre esprime civiltà, intelligenze e valori”.
Ma davvero – a Reggio – c’è qualcuno che pensa che Reggio sia una città normale?
No, chiedo: davvero? E mi rivolgo – in primis – alle circa 400 persone e personalità (!) che hanno firmato quel manifesto. Convincetemi di questo vi supplico, perché io non me ne sono accorto! E con me milioni e milioni di italiani (reggini e calabresi inclusi!).
Allora forse capisci che lo scopo falsamente subliminale del manifesto dei manifestanti che manifestano con un manifesto è questo: “caro Viminale, ti appresti a sciogliere il consiglio comunale di Reggio Calabria? Sappi che getti l’acqua sporca con il bambino” (quale!?). A pensar male si fa peccato ma…
Lasciata da parte la soluzione del mistero glorioso sulla normalità di Reggio, capisci che la lotta è politica così come il messaggio, perché quel manifesto è stato poi corretto, integrato, studiato, analizzato, valutato, pensato e ripensato, ruminato, digerito, vomitato, scandagliato e lobotomizzato da “vendoliani”, popolari, liberali, Ep (che non è un pupazzo del compianto Carlo Rambaldi ma un movimento politico reggino), associazioni, movimenti, casalinghe, idraulici e quante più categorie voi possiate immaginare tante più ce ne erano. Tra l’altro – su questo manifesto – il coordinatore di Libera a Reggio Mimmo Nasone, che lo ha firmato, è stato platealmente sconfessato dai vertici romani dell’associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Basta questo per ribadire che il manifesto doveva avere come incipit: “Non sciogliete Reggio”. Il suo scopo – legittimissimo – quello era.
IL CONTRO MANIFESTO
Come se non bastasse questo balletto, a 24 ore di distanza e dopo numerose prese di posizione – tra le quali quelle del Fli di Angela Napoli che chiede un manifesto di scuse e quelle del Pdci che parla di debolezza e disperazione, riconoscendo, perfidamente ,“la buona fede di molti dei firmatari”– giunge un contro manifesto che, anziché citare in testa “Sciogliete Reggio”, ipocritamente recita: “Nulla a che fare con il modello Reggio”. Ma si sa assumersi le responsabilità (vere) di ciò che si pensa, in Calabria è dura. E giù firme e di nuovo distinguo, integrazioni, correzioni, suggerimenti, ruminate, vomitate e chi più ne ha più ne metta.
DA RIZZICONI CON FURORE
Mentre – evidentemente – a Reggio non hanno di meglio da fare che sperimentarsi in arditi manifesti futuristi, “tomo-tomo cacchio-cacchio”, come direbbe Totò, arriva oggi sul tavolo delle Istituzioni cittadine, provinciali, regionali e nazionali, delle Procure interessate, delle banche coinvolte, di Bankitalia, dei sindacati, degli istituti di vigilanza, del Governo, dei sindacati e di Confindustria, la denuncia dell’imprenditore di Rizziconi Antonino De Masi, che con le sue aziende meccaniche dà lavoro nella Piana di Gioia Tauro a circa 160 persone.
Costui – prima dell’estate, dopo due anni di ricerca e centinaia di migliaia di euro investiti, come ho raccontato anche sul Sole-24 Ore – ha brevettato nel mondo una cellula di sicurezza che permette alle persone che sono in casa di potersi salvare la vita in caso di terremoti. L’importanza di tale progetto (unico al mondo) è confermata dal riconoscimento tecnico da parte dell’Università di Venezia, che ha segnalato il prodotto al comitato scientifico del Saie di Bologna (la maggiore manifestazione fieristica del settore in Europa) come “innovazione dell’anno”.
Dai dati ufficiali (Banca d’Italia) in Italia vi sono 31 milioni di unità abitative, escludendo edifici pubblici e scuole, e pur non considerando quelle collocate in aree non sismiche, si può tenere in considerazione un numero di 25 milioni di abitazioni che potenzialmente possono costituire la base potenziale di installazione di tale sistema di protezione. Considerando anche solo un 25% di soggetti interessati, si avrà un potenziale mercato di 6,25 milioni di prodotti e, tenendo conto della sola versione base il cui costo è minimo, si ottiene un potenziale fatturato di circa 14 miliardi di Euro, ovvero circa un punto di Pil. Va tenuto conto che il mercato mondiale è potenzialmente forse 100 volte più grande e che questo prodotto non è legato a mode o “volubilità” ma risponde ad esigenze primarie di salvare la vita e mitigare i rischi da terremoti.
Ipotizzare anche solo la decima parte di quanto sopra, o riducendo i numeri da milioni di pezzi a centinaia di migliaia o anche a decine di migliaia porta comunque a dei numeri impressionanti. Ipotizzare una prima fase di start-up con una produzione che guardi al mercato nazionale e mondiale di soli 25 mila pezzi significa fatturare 56 milioni di euro e creare almeno 200/250 nuovi posti di lavoro.
Questo progetto a regime (12/18 mesi) può garantire un’occupazione di circa 1.000 posti di lavoro e con tempi rapidi e concreti.
Una società di rating ha analizzato economicamente l’innovazione, valutandola circa cinque miliardi di euro!
Ebbene questo imprenditore ora rischia di lasciare la Calabria – oltretutto in un’area tra le più minacciate dalle cosche – e andare a produrre all’estero perché nessuno vuole finanziare gli sviluppi dell’invenzione. De Masi avrebbe infatti bisogno subito di 150mila euro ma non ha garanzie patrim
oniali o finanziarie e tantomeno gode di santi o santini nel paradiso terrestre della politica e della criminalità calabrese.
IL VERO MANIFESTO
Armato di business plan, scheda tecnica e breve lettera di presentazione, De Masi ha chiesto per iscritto ad un primario Istituto bancario un modesto e provocatorio finanziamento di 15 mila euro (quindicimila euro!), che è stato rifiutato a parole, così non rimane traccia scritta!
Ben sapendo che quello sarebbe stato l’esito, ha di nuovo scritto a tutte le banche operanti nella provincia di Reggio Calabria (sono 10), chiedendo i 150mila euro di cui sopra. Nessuna risposta.
Perché un progetto – dettagliato, brevettato, sperimentato – e che può creare immediatamente sviluppo ed occupazione nella Piana di Gioia Tauro non viene finanziato da nessuno?
E così De Masi – oltre a chiedere con la lettera spedita oggi, al ministero dello Sviluppo economico come si possa creare sviluppo al Sud con le banche che si nascondono, oltre a chiedere ai media se non sia il caso di aprire gli occhi, oltre a chiedere a Confindustria di non consentire la dispersione di questo progetto e oltre a chiedere ai sindacati vigilanza e collaborazione – pone a “tre-interlocutori-tre” alcune domande da brivido che non possono essere eluse.
Le distinguo e le separo.
LA DOMANDA AL VIMINALE
Al ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, De Masi chiede perché, come emerge da indagini e inchieste in cui si evidenzia come le banche sono colluse con la criminalità organizzata, non ci si domanda se quelli che all’inizio erano casi isolati non siano invece divenuti accordi sistemici. Perché non si interviene in un settore così delicato come la gestione del credito che è un bene tutelato dalla nostra Costituzione? Perché non si capisce che un sistema finanziario colluso ed illegale può far traballare la democrazia? “Non è difficile immaginare che se un cittadino ha bisogno di credito e la banca, immotivatamente, non lo concede – scrive De Masi – questo alla fine, disperato, andrà in banca accompagnato dal mafioso di turno per ottenerlo; faccio presente che queste cose costituiscono la drammatica realtà in una terra come la Calabria, e sono ben riportate nei procedimenti penali in corso”.
LA DOMANDA A BANKITALIA
Perché la Banca d’Italia non si rende conto, scrive l’imprenditore, che “le sue vecchie (spero) omissioni sulla vigilanza del sistema creditizio hanno portato alla degenerazione e collusione del sistema in alcune zone del Paese? Perché Banca d’Italia non capisce che il lasciare le banche in mano a gente non solo incapace di valutare e capire ma che concede favoritismi ai criminali, ammazza non solo la democrazia ma anche i sogni di crescita?”.
LA DOMANDA ALLE PROCURE
Ai Procuratori della Repubblica De Masi chiede – provocatoriamente perché in realtà lui stesso ha presentato e vinto cause contro le banche e molte altre denunce sono in corso – se non sia il caso di verificare se dietro la negazione o concessione del credito vi sia invece dell’altro “o la tutela di interessi criminali; in particolare nel caso specifico, in cui mi è stata anche negata l’apertura di un conto attivo?”.
Mentre una Reggio si trastulla, c’è dunque un’altra Reggio che denuncia, non ha paura e chiede solo di lavorare. E di avere risposte.
Sarà il caso di controfirmare queste legittime, banali (e nobili) richieste di De Masi?