Non si può certo dire che manchi il coraggio a Luigi Bonaventura, collaboratore crotonese di giustizia, ex boss della cosca Vrenna in attesa dell’espatrio o della morte.
Converrete che non è la stessa cosa.
Delle due l’una: o lo Stato lo manda fuori dai confini nazionali (come del resto sta chiedendo da mesi visto che l’hanno ficcato a Termoli, mandamento occulto in Molise della ‘ndrangheta, in mano ai De Stefano) oppure le possibilità che lo accoppino (o si vendichino sui familiari) sono – come lui denuncia da tanto tempo – molto ma molto elevate.
Quest’uomo, piccolo di statura, ma con una ex statura criminale di spessore, “nato” mafioso, di grande coraggio (provateci voi a mettervi contro i De Stefano), dallo Stato (finora) è stato riconosciuto attendibile.
Dunque mi domando: perché lo stesso Stato non dice – una volta per tutte – che fare di lui e della sua famiglia?
Voi direte – amati lettori di questo umile e umido blog – ma Bonaventura non subisce lo stesso trattamento di altri pentiti?
E come no? Certo, anzi probabile, anzi possibile, anzi…forse. Ma il punto è proprio questo: ormai i pentiti sono diventati carne da macello perché così – ficcatevelo bene nella “capa” – conviene a tutti: allo Stato e alle mafie.
Accanto a Bonaventura siede – 24 ore su 24 – una donna, sua moglie. Si chiama Paola Emmolo e come tutte le mamme, non combatte per suo marito ma per i suoi figli. Il fatto che combatta anche per suo marito è logica conseguenza dell’istinto materno che non conosce null’altro che le leggi naturali della protezione della specie. Vale a dire i suoi figli.
Ebbene tre giorni fa questa donna e il suo uomo, hanno scritto una lettera al Servizio centrale di protezione a Roma (l’ennesima) che dovrà (almeno questo è quanto chiedono) essere indirizzata al premier Mario Monti.
La lettera – quattro pagine – è diretta al cuore del premier e della sua famiglia, come mai potrebbe esserlo la lettera di un azzeccagarbugli del diritto o di un avvocato.
“Egregio Presidente del Consiglio – scrivono i coniugi Bonaventura – se invece dei nostri figli fossero i suoi nipotini a rischiare ogni minuto che passa di essere sequestrati, strangolati e sciolti nell’acido, quanto tempo avrebbe impiegato per disporre loro una scorta e portarli nel lasso del tempo più breve possibile nel posto del mondo più sicuro per loro?…Il cuore della vostra signora come starebbe ogni ora che passa in questo grave pericolo se i nostri figli fossero i vostri nipotini?…”.
Poi giù durissimo con la cecità dello Stato. “Qui a Termoli – scrivono i coniugi ricordando i tanti e strani casi che hanno coinvolto il Molise, da quello di Enzo Tortora a quello di Lea Garofalo – la trattativa tra Stato e ‘ndrangheta o mafie, grazie al cattivo funzionamento di questo importantissimo strumento di contrasto alle mafie, che sarebbe il programma di protezione, si consuma ogni giorno e nessuno fa niente. Come mai il programma di protezione, che dovrebbe essere una punta di diamante nel contrasto alle mafie non funziona?”. Non dimentichiamo che il pentito ha a più riprese denunciato la presenza di “talpe” (ovviamente denuncia da provare) all’interno del meccanismo di tutela e garanzia dei collaboratori di giustizia.
Nell’ultima parte della lettera – dopo aver chiesto ancora una volta protezione, espatrio e le risorse previste per legge – Bonaventura avanza una provocazione: se lo Stato ha deciso di abbandonarlo al proprio destino, allora abbia il coraggio di “cacciarlo” dal programma di protezione e abbia il coraggio di dichiararlo “inattendibile”.
Se così non fosse però – aggiungo io – è bene fare il contrario e subito. Tutelarlo e con lui la famiglia ma – soprattutto – prendere lo spunto da questa denuncia per aprire alla riforma dell’istituto della collaborazione.
Ormai sono passati decenni da quanto il giudice Giovanni Falcone ne portò alla luce la vitale importanza. E purtroppo – per lo Stato deviato e per le mafie raffinatissime – questo tempo è trascorso per “bruciare” questo istituto e lasciarlo in balia della discrezionalità.
E' questo il motivo per cui mi appassiono alla battaglia dei coniugi Bonaventura. Al di la della sua e della loro attendibilità – che non spetta assolutamente a me decidere e giudicare – Luigi Bonaventura alza la voce a nome di tutti i pentiti.
Fa il "sindacalista" nel nome di una categoria piena di persone davvero credibili e di mele marce infilitrate con sapienza da cosche e mandamenti. Ma dividere il buono (da proteggere) dal cattivo (da reprimere) è compito dello Stato. Non di Bonaventura. Anche per questo siamo una democrazia. O no?
r.galullo@ilsole24ore.com