Le peggiori pagine della storia italiana si ripetono. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – solo per citare due totem della legalità ma il discorso vale per molti altri Servitori dello Stato – tocca ora al magistrato più esposto nell’indagine sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra essere messo di fronte allo spettro dell’azione disciplinare del sinedrio: Nino Di Matteo.
La storia – bene o male – la conoscete, la conosciamo. Il pm è accusato di aver «ammesso l'esistenza delle telefonate tra l'ex ministro dell'Interno Mancino e il capo dello Stato».
Nell’agosto 2012 il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani assegnò al sostituto Mario Fresa il compito di verificare se Nino Di Matteo avesse violato il principio di riservatezza delle indagini e se il Procuratore capo avesse autorizzato l’intervista (incriminata) del 22 giugno 2012 a Repubblica.
A caldo, il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, segretario della giunta distrettuale dell’Anm, dichiarò: «Sono scandalizzato. E’ un’iniziativa senza precedenti, un unicum assoluto, una vicenda inquietante e sinistra».
Dopo alcuni mesi di indagini durante i quali la Cassazione ha incamerato risposte, atti e documenti, il 21 marzo, il procuratore generale Ciani ha fatto scattare l’azione disciplinare nei confronti del sostituto procuratore.
Di Matteo – per il procuratore generale – ha «mancato ai doveri di diligenza e riserbo» nel corso dell'intervista del 22 giugno 2012. In questo modo sarebbe stato leso «il diritto di riservatezza del capo dello Stato» sancito dalla Corte costituzionale dopo il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo.
Il resto è storia recentissima. Ieri pomeriggio il movimento Agende Rosse di Salvatore Borsellino ha solidarizzato con Di Matteo sotto il Palazzo di Giustizia di Palermo e lo stesso movimento, alcuni giorni fa, con la rivista AntimafieDuemila ha lanciato la petizione online (per firmare www.antimafiaduemila.it) con la quale si chiede al Csm di archiviare il procedimento aperto nei confronti del pm.
Storia recente è anche il fatto che Sebastiano Ardita, 47 anni, procuratore aggiunto a Messina e per 10 anni direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ha assunto la difesa di Di Matteo di fronte al Csm.
La redazione di www.19luglio1992.com ha pubblicato il testo della mail che il 5 aprile Ardita ha inviato alla mailing list dell'Associazione nazionale magistrati (Anm) sull’azione disciplinare. Sotto troverete il testo integrale della mail che merita di essere commentata in alcuni punti chiave.
Inutile perdersi nei tecnicismi (autorizzazione si autorizzazione no all’intervista da parte del capo della Procura o precedenti che lasciano capire che tutto si potrebbe concludere con una rapida archiviazione) e veniamo al sodo.
Ardita scaglia contro la sua categoria parole durissime sottolineando che lo fa per spirito di verità (e chiarisce che non ha intenzione alcuna di lanciarsi in corse elettorali all’interno del Csm). Quali sono queste pietre scagliate? Vediamole.
1) Comunque vada, la strada che percorreremo sarà quella di dare la massima pubblicità tra i magistrati ai contenuti di questo procedimento, sul quale avremo moltissimi argomenti da spendere. Chiarissimo il messaggio: chi pensa che al silenzio di molti colleghi (elegantemente Ardita afferma che qualche dubbio sollevato in buona fede ha evitato altre adesioni di solidarietà) o all’indifferenza della politica, delle classi dirigenti, di buona parte della società italiana distratta da altro e via di questo passo, si risponda con un silenzio uguale e contrario, sbaglia di grosso. “Comunque vada” (incipit chiave) la difesa e le argomentazioni della stessa saranno rese pubbliche, sbandierate perché qui non si tratta di un (eventuale) procedimento disciplinare che tratta di lana caprina ma dell’esercizio di diritti elementari della democrazia costituzionale (o della Costituzione democratica, fate voi). Qui si tratta di elevare un muro a difesa di chi con la propria vita e per la sopravvivenza della democrazia stessa tenta di fare luce su una delle tante pagine scure di un’Italia sull’orlo della disgregazione.
2) …non vorremmo che la organizzazione del pubblico ministero cominci a somigliare a quella dei militari, e questo caso specifico può essere la via del non ritorno. Una frase, questa, che segue e al tempo stesso apre la scia ad una dura (anche se contenuta in brevissimi lampi) requisitoria di Ardita contro la “gerarchizzazione” delle Procure. Il discorso porterebbe lontano ma – e questo lo dico io, non Ardita, che forse lo penserà forse no – la “militarizzazione” del pensiero conduce alla dittatura del pensiero unico che – Ardita e Di Matteo lo sapranno meglio di me – in alcuni uffici giudiziari è purtroppo già realtà. Ed è realtà – aprite gli occhi cari magistrati, cari giudici – perché in troppi, in molti hanno, avete rinunciato all’indipendenza che la Costituzione vi assegna. Un “dono” inestimabile che da tanti, troppi, è stato “scambiato” in cambio di carriere, progressioni, favori. La magistratura – come il sacerdozio, il giornalismo e la professione medica – non sono mestieri ma “pelli”. Chi tradisce la propria pelle, lo fa a scapito di tutti i colleghi e porta la categoria ad una fine più o meno rapida, durante la quale diventa facile preda della politica e dei poteri forti che, a quel punto, non sono più uguali di fronte alla legge.
3) …lo strumento disciplinare è una fonte di orientamento culturale. Vorremmo che colpisse gli infedeli e non i valorosi: che incoraggiasse e scoraggiasse nella giusta direzione. Minchia, signor Tenente, tanto per rimanere nell’ambito del mondo e del gergo militare! Se non sono pietre scagliate queste, mi domando cosa siano. Da aggiungere c’è poco se non una domanda: di grazia qualcuno è in grado di dirmi, di dirci, quanti procedimenti disciplinari sono stati emessi in questi anni nei confronti dei magistrati infedeli? Magari qualcuno può anche rispondere sul perché magistrati di cui anche le pietre sapevano essere corrotti, collusi o omertosi siano stati prosciolti o le loro posizioni archiviate quando poi – a distanza di mesi o anni – per quelle stesse dinamiche note anche ai sassi sono stati raggiunti da indagini e condannati?
4) La desertificazione delle procure forse non è solo un problema organizzativo ma una conseguenza del diradarsi di quello che alcuni di noi conoscono come lo “spirito” del 1992: che ti faceva decidere di venire a fare il magistrato in Sicilia, quando ne ammazzavano due all’anno. Anche in questo caso c’è poco da
aggiungere se non che quella sensazione di smarrimento di un idem sentire che trova nel senso dello Stato la sua ragion d’essere, a me sembra legittima e reale. Purtroppo l’afflato che dovrebbe legare i poteri indipendenti dello Stato e questi ultimi alla società viene ogni giorno meno e sono sempre di più i magistrati, i giornalisti e i preti che fanno a meno di varcare quella “frontiera” dell’illegalità (ieri e oggi la Calabria, la Sicilia, la Campania ma vieppiù le regioni del Nord) che fino a poco tempo fa era ragione di vita e orgoglio professionale per molti. Il motivo è semplice: la società è sempre più amorale. Ergo: lo Stato è sempre più corrotto. Punto. Tutto il resto (delle analisi) è noia.
5) Nell’immobilismo della magistratura associata, il quieto vivere potrebbe farsi spazio in questo nostro mestiere a danno dei cittadini, dell’indipendenza e dello Stato di diritto. E qui Ardita mente sapendo di mentire. Ma lo fa perché la classe non è acqua. Il “quieto vivere” da tempo, carissimo Ardita, e lei lo sa più di me, si “è” fatto spazio nella vostro mondo associazionistico che – come il nostro, intendo dire quello dei giornalisti – è sempre più protezionistico, auto difensivo, autoreferenziale, corporativo e lobbistico. Ergo: forte con i deboli e scendiletto (magari solo debole!) con i forti. Il silenzio, l’omertà – lei lo sa come lo sanno i Servitori dello Stato come Nino – sono cultura mafiosa e non “altro” dalla stessa. Non prendere posizione, fingere di non vedere, girarsi dall’altra parte è – né più né meno – che negare l’esistenza della cultura mafiosa. Quanti magistrati (e quanti giornalisti e quanti preti) si girano dall’altra parte? La loro pelle – quella che madre natura ha donato voi, noi e loro – dovrebbe “bruciare” ma incendi anche solo dialettici – in queste categorie – in giro non ne vedo. Evidentemente il patto con il diavolo (carriera, posti, prebende o peggio) funziona e funziona bene. Per tutti. Sempre più spesso per noi giornalisti, vil e nobil razza dannata.
6) La difesa di Nino Di Matteo deve appartenere alla magistratura, ed essere condivisa con tutti e nel modo più largo possibile. Non può piegarsi ad interessi di parte o essere presupposto per ottenere consenso. Questo è quanto Ardita – intelligentemente, come suggerisce quel “dimenticavo” buttato lì con nonchalance – ha vergato nel P.S. e che in realtà vale quanto e più di una premessa al suo ragionamento. La conditio sine qua non per difendere non il singolo (in questo caso Di Matteo, ieri Falcone, domani chissà chi) ma l’indipendenza di un potere vitale per la democrazia italiana.
Per questo – e concludo – è necessario che a quelle tappe di trasparenza promesse nella mail di Ardita ai colleghi, faccia seguito la coerenza: vogliamo sapere anche noi, l’Italia con la schiena dritta e la legalità in mano, chi, come e quando tradirà o continuerà a tradire quel patto che ogni magistrato ha firmato con lo Stato, ergo con tutti noi, nel momento in cui è stato assunto. Indietro non si può tornare. Oppure si: basta abbandonare la toga e lasciarla a chi è degno di indossarla. Come lei. Come Nino. Come quanti altri?
r.galullo@ilsole24ore.com
IL TESTO DELLA LETTERA/MAIL DI ARDITA AI COLLEGHI MAGISTRATI
La presenza numerosa di attestazioni di stima in favore di Nino Di Matteo, fa comprendere che al di là delle iniziative che potranno essere assunte esiste già nei suoi confronti un atteggiamento diffuso di affettuosa solidarietà.
Forse qualche dubbio sollevato in buona fede ha impedito tante altre esplicite adesioni.
La conoscenza del merito della vicenda ed alcuni chiarimenti – a vantaggio dei tanti che fortunatamente sconoscono la materia disciplinare – aiuterà tutti a saperne di più.
La giurisprudenza del Csm è di grande conforto nell’escludere categoricamente rilevanza di illecito al fatto in sé di rilasciare intervista senza autorizzazione del capo dell’ufficio (in nota i riferimenti normativi [1]). Si tratta di una interpretazione giusta che pone un piccolo argine alla diffusa gerarchizzazione delle procure.
Rimane perciò solo da valutare il contenuto di ciò che è stato detto.
Guardata alla luce di tutte le norme del d. l.vo 109, delle disposizioni che impongono diligenza e riserbo da utilizzare nelle esternazioni e della giurisprudenza disciplinare del Csm, la breve intervista di Nino Di Matteo è ineccepibile, perché è solo un atto che, con misura, ristabilisce la verità dei fatti.
La notizia (vera) della esistenza delle telefonate del Presidente era già presente sulla stampa da giorni. E insieme a questa era stata anche diffusa la notizia (falsa) che i contenuti di quelle conversazioni fossero rilevanti per le indagini.
Nino dunque non ha affatto dato notizia delle telefonate. Ha solo ristabilito la verità, precisando che le telefonate del Capo dello Stato non erano minimamente rilevanti. Richiesto di sapere cosa avrebbero fatto delle registrazioni che erano nel processo, ha risposto:<< Noi applicheremo la legge>>. Quelle da distruggere verranno distrutte, quelle da trascrivere verranno trascritte.
Da un esame sommario di casi analoghi, comportamenti come questo sono stati costantemente ritenuti irrilevanti giacché carenti del requisito dell’esser “diretti a ledere indebitamente i diritti altrui”.
Ecco perché l’iniziativa di avvio del procedimento disciplinare basata su questi presupposti appare incomprensibile.
Sono sicuro che le attività sin qui svolte costituiscano un atto dovuto e l’ufficio del Procuratore Generale avrà tempo e modo di valutare una richiesta di non luogo a procedere alla sezione disciplinare del Consiglio, impedendo così che il pm della trattativa Stato-Mafia – sulla base di questo nulla – continui ad andare in udienza reggendo il peso di un’azione disciplinare.
Comunque vada, la strada che percorreremo sarà quella di dare la massima pubblicità tra i magistrati ai contenuti di questo procedimento, sul quale avremo moltissimi argomenti da spendere.
Mentre in questa lista si sogna un mondo giudiziario orizzontale, si vagheggia di incarichi semidirettivi o direttivi a rotazione, non vorremmo che la organizzazione del pubblico ministero cominci a somigliare a quella dei militari, e questo caso specifico può essere la via del non ritorno.
Siamo consapevoli che lo strumento disciplinare è una fonte di orientamento culturale. Vorremmo che colpisse gli infedeli e non i valorosi: che incoraggiasse e scoraggiasse nella giusta direzione. La desertificazione delle procure forse non è solo un problema organizzativo ma una conseguenza del diradarsi di quello che alcuni di noi conoscono come lo “spirito” del 1992: che ti faceva decidere di venire a fare il magistrato in Sicilia, quando ne ammazzavano due all’anno. Nell’immobilismo della magistratura associata, il quieto vivere potrebbe farsi spazio in questo nostro mestiere a danno dei cittadini, dell’indipendenza e dello Stato di diritto.
Sebastiano Ardita
P.S.
Dimenticavo.
La difesa di Nino Di Matteo deve appartenere alla magistratura, ed essere condivisa con tutti e nel modo più largo possibile. Non può piegarsi ad interessi di parte o essere presupposto per ottenere consenso. Quindi è chiaro:
non sarò candidato per le elezioni del Csm e come componente del Cdc, fatto salvo il dovere di partecipazione e di voto alle delibere assembleari, non assumerò posizioni di parte su temi diversi dalla difesa dei magistrati di Palermo.
[1] Sul punto il Csm sezione disciplinare, a partire dalla pronuncia n. 3/2008, ha stabilito che tale condotta, pur non essendo conforme ad una disposizione attinente alla organizzazione delle procure (art. 5 comma 3 d.l.vo n. 106/06), non essendo contemplata espressamente dalla lett. V del d.l.vo n. 109/2008, in virtù del principio di tassatività delle ipotesi di illecito, non integra gli estremi disciplinari. Il giudice disciplinare ha infatti osservato come la seconda parte della lett. V) dell’art. 2 comma 1, richiamando formalmente solo l’ipotesi del comma 2 dell’art. 5 del d. l.vo 106/2006, solo a tale prescrizione abbia ancorato la ipotesi tipica di illecito disciplinare.
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