Il memoriale di Nino Lo Giudice/1 Il film prevede un finale già scritto (a meno che non si consegni a Cafiero De Raho)

Dopo il primo memoriale, a giugno, del nano Nino Lo Giudice, il pentito più incredibile della storia dei collaboratori di giustizia calabresi, in molti mi chiamarono e scrissero per darmi una virtuale pacca sulle spalle. «Avevi ragione tu – era il ritornello – quella persona ha rovinato la vita di molte persone ed era manovrato da una cricca che ora, per sua stessa ammissione, ha nomi e cognomi pesanti, pesantissimi, a partire da quelli di magistrati e investigatori». Mah…

Pur sollecitato a scrivere di quel memoriale – a parte alcune analisi diciamo così, tecniche, che a breve mi torneranno molto utili per un servizio che sto preparando – ne restai alla larga. Quel memoriale puzzava lontano un miglio di tragedia, come gran parte della vita di Nino Lo Giudice.

Ora qualche considerazione invece – a guidarmi è spesso l’istinto animalesco – mi sento di farla. Non so esattamente perché ma è così. Forse  è perché credo che la vita di un uomo – Nino Lo Giudice – sia davvero in pericolo.

Voglio essere chiaro in quel che ho pensato (e scritto) e che penso ancora: quella del nano calabristano è – fin dall’inizio – una tragedia. Balle mischiate a verità erano prima e balle mischiate a verità sono quelle del primo e del secondo (e non ultimo) memoriale.

Chi considerava una mia vittoria personale aver fatto le pulci alle dichiarazioni negli anni scorsi di Lo Giudice mettendone in luce le contraddizioni e le follie non si accorgeva che invece era una loro sconfitta, perché battere le pacche è facile, esporsi per capire è di pochi. Qualche imbecille ha considerato che fare il mestiere del giornalista senza guardare in faccia a nessuno e pensare (anche sbagliando) solo con la propria testa volesse significare schierarsi con l’uno o con l’altro dei protagonisti della Giustizia entrati direttamente o indirettamente in questa girandola calabrese: da Cisterna a Macrì, da Pignatone a Grasso, da Ronchi a Prestipino Giarritta, da Lombardo a Gratteri. Io non mi schiero con nessuno. Nessuno. Della partigianeria non so che farmene. Il giornale non mi paga per questo e i lettori non mi leggono per questo.

Ed infatti – per essermi sempre esposto senza alcuna rete se non quella dei lettori, a differenza di presunti colleghi golosissimi di veline e leccate – ho pagato un prezzo tremendo (comprese le attenzioni di un’informativa di Stato infamante nei miei confronti e di alcuni altri colleghi, rei di aver solo fatto il nostro mestiere senza padrini o padroni, strategicamente tirata fuori anche di recente da soggetti con i quali non vorrei mai neppure essere fotografato, figuriamoci sfilarci, come invece altri hanno fatto, in eventi che mettevano sotto lo stesso tetto indagati e inquirenti). Un prezzo che – lo so perfettamente – continuerò a pagare, perché la libertà di stampa ha un costo altissimo che pochissimi sono disposti ad accettare.

E di pochissimi è cercare di capire il movente di questa abile tragedia che ormai sta per giungere al suo quarto anno di vita. Una vita intera nel corso della quale fulgide carriere sono decollate, altre sono finite per sempre, altre ancora restano sospese, altre ancora potranno essere distrutte o infangate, altre ancora tengono ostaggio la vita di persone che magari hanno più di uno scheletro nell’armadio.

Comunque vada, purtroppo, per il sistema criminale che governa la Calabria, sarà un successo: la regia criminale avrà raggiunto il suo obiettivo. Ignoto a noi, noto a loro.

E così continuo – come sempre – a scrivere ciò che penso: Lo Giudice è abilmente manovrato. Molto abilmente, nella migliore delle tradizioni calabresi. Ma non da oggi: da subito.

Siatene certi: non sapremo né oggi né mai i nomi e i cognomi dei manovratori, vale a dire di quelle intelligenze criminali che distano dal nano calabristano anni luce.

La storia criminale calabrese è infarcita – come nessuna mai – di tragedie delle quali resta – per i calabresi – solo la puzza di carogna, mentre per la cupola criminale segnano una tappa verso nuovi equilibri mafiosi.

CAFIERO DE RAHO

Concordo dunque – pienamente – con il capo della Procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho. «Il fatto che ci sia un video – ha detto Cafiero De Rahodi per se non è dimostrativo della genuinità di ciò che dice. In Calabria ci sono state macchinazioni talvolta orribili. E' tutto da approfondire. Si tratta di capire se la provenienza del materiale è sua o se dietro c’è una macchinazione per scardinare le accuse mosse in precedenza. La ‘ndrangheta ha una forza e ramificazioni notevoli rispetto alle quali occorre operare con grande fermezza e rigore. L’inquinamento ambientale è il vero problema».

Cafiero De Raho si pone e dunque pone a tutti la domanda principale: se dietro ci sia una macchinazione per scardinare le accuse mosse in precedenza che però – va detto – hanno retto solo parzialmente e tra mille contraddizioni alle prove dei fatti.

Può darsi che sia come dice lui – del resto ha ben diversi elementi da quelli di un giornalista per analizzare – ma al momento continuo a credere che il nano calabristano semplicemente non abbia più potuto reggere un gioco troppo ma troppo più grande di lui soprattutto quando ha capito che la sua vita era a rischio e hanno cominciato a infilarsi elementi spuri rispetto a quelli inizialmente subiti, come le presunte conoscenze di aspetti legati alle stragi siciliane. E così come ne era entrato – vale a dire per volontà altrui – così credo che cerchi di uscirne, appoggiandosi ancora una volta a spalle molto ma molto più robuste delle sue.

Per Cafiero De Raho ci sono, dunque, «dubbi» sulla provenienza del memoriale. Fossi in lui dubbi non ne avrei: quel memoriale, così come il primo e i prossimi, non è solo farina del suo sacco (e sottolineo “solo”, perché ci sono anche in questo secondo memoriale affermazioni e assunzioni di responsabilità tutte sue che possono condurre a facili verifiche) e il tentativo di affermare il contrario negli stessi memoriali, è una bugia alla quale non crede neppure il nano calabristano ma la regia – perfetta, che è alle sue spalle – prevede che la trama ”chiagni e fotti” si dipani anche con questi spaccati strappalacrime.

E allora se quello che scrivo è vero bisogna porsi inizialmente tre domande: 1) chi è il regista; 2) perché questa tragedia; 3) come finirà.

IL REGISTA

Sul regista – come ho detto sopra – bisogna mettersi il cuore in pace. La nube mafiosa che avvolge Reggio diventa sempre più fitta e chi pensa di intravedere nella nebbia la verità è destinato a schiantarsi dopo la prima curva.

Il dramma – a mio modesto parere – è che non lo sapremo mai. Neppure – voglio ess
ere chiaro anche se spero di sbagliarmi – se il nano calabristano dovesse consegnarsi nelle mani di Cafiero De Raho, che del resto è l’unica cosa che auspico per la sua salvezza. Il quadro indiziario e probatorio è inquinato definitivamente e tirare fuori dalla melma il filo della matassa è operazione impossibile anche per un supereroe.

PERCHE’?

Sul motivo, sul perché, valgono (parzialmente) le motivazioni di cui sopra.

Dico parzialmente non perché mi voglia avventurare in cazzate interpretative ma perché abbiamo alcuni punti non dico oggettivi ma sui quali almeno riflettere:

1) le prime dichiarazioni del nano (per essere chiari: quelle sulle ipotesi autoaccusatorie degli attentati, quelle sulla corruzione di Alberto Cisterna, quelle sulla nuova geografia ‘ndranghetista; quelle sulle sue relazioni con altri pentiti; quelle sulle incursioni di soggetti terzi nelle storie che raccontava) sono inzeppate di bugie che solo chi non ha voluto non ha potuto vedere e che, ripeto, hanno retto solo parzialmente e tra mille contraddizioni e dubbi alla prova dei fatti. Solo io – e pochi altri – le vedevamo? Non ci credo e su questo – lucidamente – il regista dell’”Operazione nano calabristano”, si prende gioco di tutti.

2) ho sempre pensato (e scritto) che l’origine di questa pagina buia della storia mafioborghese a Reggio fosse da ricercare intorno ai vizi e alle virtù della Procura generale. Li – da pochissimo – si era instaurato un nuovo corso che prevedeva una cosa rivoluzionaria a Reggio: il rispetto delle sentenze di primo grado che, fino a quel momento, venivano troppo spesso riformate vanificando anni e anni di indagini. Non solo: in quella Procura generale troppi erano i conti da regolare tra nuovi e vecchi frequentatori del Palazzo e – con l’arrivo del nuovo procuratore Salvatore Di Landro –  la “bombetta” serviva per lanciare messaggi che chi doveva recepire ha recepito;

3) gli altri attentati – quello sotto casa del pg Salvatore Di Landro e il bazooka sotto la sede del Cedir – si inseriscono in una scia già volontariamente confusa e contorta, utile per tragediare, mischiare le carte e rinvigorire – a tutto vantaggio della cupola mafioborghese – i veleni tra magistrati all’interno del Cedir e, su per li rami, fino a Roma, Milano e Torino. Una guerra in cui – mai come in Calabria – i magistrati sono attori e protagonisti. Spalleggiati vuoi da quella stessa cupola mafioborghese che tutto avvolge, vuoi dalle segrete stanze di qualche loggia più o meno ufficiale, vuoi da decenni di contatti insani con pezzi nebulosi dei servizi segreti, vuoi da quella politica che in Calabria tutto tinge e sporca;

4) fatto sta che in questo gioco pericolosissimo una terna di magistrati che avrebbe voluto affacciarsi per la guida post pignatoniana è stata fatta secca: Alberto Cisterna, Enzo Macrì e Roberto Pennisi. Guarda te quelli che negli anni Novanta guidarono le indagini contro una parte della cupola mafioborghese di Reggio. Chi li ha fatti fuori grazie all’appoggio del nano calabristano che ora ritratta su Cisterna e chiede scusa leggendo davanti a una telecamera un copione scritto a più mani, aveva paura del loro possibile ritorno. I motivi non sta a noi conoscerli ma è facile intuire che certi equilibri, faticosamente raggiunti negli anni, non dovevano essere modificati.

5) ho sempre pensato che per la famiglia Lo Giudice questa “messa a disposizione” di Nino fosse il prezzo da pagare per continuare a vivere (operare) a Reggio Calabria. Un anello debole nella catena ‘ndranghetista (l’ala esecutrice intendo dire, non certo quella che vola a livelli altissimi nelle stanze del potere) utile alla bisogna. E la bisogna a Reggio si presenta con la stessa puntualità di un orologio svizzero.

Non solo. Saranno coincidenze ma una cosa mi ha colpito (me ne sono accorto solo io? No ma a Reggio la fifa fa 90 e quando si parla e si scrive di certi argomenti fa 180): il primo memoriale è stato consegnato nel corso di un ennesimo momento vitale del processo Meta nel corso del quale avrebbe dovuto ancora deporre Peppe De Stefano. A chi (tra gli altri) viene consegnato il memoriale in aula poco prima della deposizione di Peppe De Stefano? All’avvocato di Pasquale Condello, il “supremo” che tanta parte ha avuto e ha nella vita (come del resto i De Stefano) della famiglia Lo Giudice. E guarda tu le coincidenze come si rincorrono, chi rappresenta la pubblica accusa in quel processo? Quel Giuseppe Lombardo al quale il nostro eroe calabristano si premura di rivolgere un dolce pensiero nel secondo memoriale (ma su questo tornerò domani).

Ora se è una coincidenza è una coincidenza perfetta: i due terzi della trimurti ‘ndranghetista reggina (mancava solo la cosca Libri ma la logica voleva che restasse fuori essendo la depositaria delle regole che chissà, anche in questa rappresentazione scenica, ha approvato) sono protagonisti (involontari?) del colpo di scena che spariglia le carte sul tavolo. Sono lì: direttamente o indirettamente assistono al suicidio mediatico di Lo Giudice sull’altare del processo Meta, vale a dire di quel processo che – dopo anni e faticosamente, con un isolamento pressoché totale del pm – mette sotto la lente non chi vende piantine o semi di girasole ma chi rappresenta, secondo l’accusa, l’ala mafioborghese della città.

6) resta da capire un ultimo perché. Si è vero ce ne sono tanti ma concentriamoci su quest’ultimo: perché i memoriali ora? La risposta qui è praticamente impossibile allo stato dell’arte. Il primo memoriale – lo abbiamo visto – esplode in un luogo non certo casuale e di fronte a famiglie che regolano molto della vita della città (Condello e De Stefano) e di fronte a un pm che vuole scoprire quelle regole mafiose (non solo in quel processo, si badi bene).

Ed esplode quando il nuovo procuratore è già arrivato e ha detto – al debutto – due cose rivoluzionarie per Reggio: obbligatorietà dell’azione penale e legge uguale per tutti. Beh, va detto, due motivi necessari e sufficienti per far tremare i polsi alla cupola reggina e dunque una prova di forza come quella andata in scena nell’aula bunker che celebra il processo Meta, ci sta e ci sta tutta.

Il secondo memoriale giunge in pieno agosto ma – soprattutto – a poche settimane dalla ripresa della macchina giudiziaria: a Reggio come a Palermo. E giunge aprendo le danze con parole di miele indirizzate a Giuseppe Lombardo, protagonista in ambo i versanti (ma su questo, come detto, arriverò domani).

COME FINIRA’?

Pure in questo caso, anche avendo la sfera di cristallo si farebbe un buco nell’acqua. Però una cosa netta va affermata: se Nino Lo Giudice (nei confronti del quale debbo dire onestamente nutro una cristiana pietas) vuole salvarsi la vita non ha che
una possibilità: consegnarsi nelle mani di Cafiero De Raho. E per quanto valga il mio invito (nulla), gli chiedo di farlo.

Sappia che – terminato di girare il film – il regista e gli sceneggiatori si libereranno di lui. E anche se – per assurdo – nessuno fosse o fosse stato dietro le sue spalle nè ora nè mai, sappia che nessuno e sottolineo nessuno (tranne la Procura e la sua famiglia) ha interesse che rimanga in vita. Spero – con tutte le mie forze – che ci sia ancora tempo per cambiare il finale del film.

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

  • bartolo |

    perfetto galullo, dimostra di essere un eroe del giornalismo. ma, alla sua analisi, mancano molti tasselli che dovrebbero essere ricongiunti. il primo tassello è che i pentiti barreca, lauro, nucera e nasone in termini di tragedie e devianze, altro che nano. ad eccezione di nasone, identico al nano, e di nucera, inqualificabile in quanto incapace d’intendere e volere, gli altri due in dette attività criminali sono stati e rimangono dei giganti. sa cosa sembra veramente strano agli occhi dei vigili osservatori? sembra strano che, nonostante quei giganti pentiti siano stati gestiti dalle valorose risorse inquisitorie presenti in magistrati della stazza di macrì, pennisi e cisterna, sia dovuto arrivare pignatone, giarritta e la ronchi a far toccare con mano al mondo intero di qual pasta avariata è costituita la ndrangheta.
    nel suo impegno, che le fa onore, vede qualcosa che non è ndrangheta, ma, molto più pericolosa di essa. cioè, qualcosa individuabile in parte di poteri deviati dello stato in connubio con personaggi bordeline tra mafia e antimafia, che, utilizzando la stessa stupida ndrangheta tengono la calabria sotto scacco, rendendola terra di nessuno in cui poter spadroneggiare nelle proprie azioni politiche-eversive-criminali. questo fa paura perché verosimile, ed anch’io scrivo questo strampalato concetto pervaso dal terrore; però, non si spiega il fatto del perché l’attuale sistema abbia temuto il ritorno in calabria di quei magistrati che in precedenza l’aveva lasciato indenne. nel mentre veniva perseguita l’organizzazione criminale più pericolosa esistente al mondo: quella, appunto, che ogni anno si riuniva a polsi per il rituale delle affiliazioni e delle mangiate di capra, annaffiate d’abbondante vino che poi faceva lor vedere il primo, il secondo, il terzo livello; e infine, quindi, l’invisibile struttura organizzativa della loro ndrangheta!

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