Prestipino (Dda di Roma) spiega la cultura mafiosa a Ostia: «Il pizzo, anche di pochi euro, è una questione di rispetto»

Il 12 febbraio 2014 il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il suo storico aggiunto Michele Prestipino Giarritta siedono davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Giovedì scorso e poi ancora ieri abbiamo analizzato insieme un aspetto (sur)reale: l’esistenza o meno delle mafie a Roma, i rapporti criminali e gli “attori” di questi rapporti e le strategie investigative per prendere di petto mafie e cultura mafiosa. Abbiamo letto dei ritardi con i quali (dai tempi della Banda della Magliana in poi) lo Stato si è mosso.

Oggi ci trasferiremo appena fuori dalla Capitale. Sul litorale laziale, ad Ostia e dintorni, anche se in realtà tra Roma e il litorale ormai non c’è soluzione di continuità. Qui le indagini investigative hanno (ri)scoperto quello che tutti, a Roma, sanno: vale a dire che quella propaggine della Capitale è luogo di mafia. Qui la Procura di Roma – per il momento – ha accertato che operano due gruppi ritenuti mafiosi.

DUE GRUPPI

Il primo è un gruppo storico, che affonda le sue radici nell’agrigentino e che da lì si è propagato nel mondo: la famiglia Caruana-Cuntrera.
Il secondo gruppo ha origini indigene, vale a dire lì è nato. Non ha alcun legame con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra ma al proprio interno ha assunto una strutturazione tipica dell'organizzazione mafiosa, opera in settori di privilegio e di intervento tipici dell'attività di chiara matrice mafiosa e persegue i propri obiettivi e realizza i propri interessi con il metodo mafioso.
Che cosa hanno consentito di accertare le indagini della Procura di Roma? Che questi due gruppi si sono contesi il territorio, hanno avuto anche dei momenti di collisione di interessi e che questa collisione di interessi è stata risolta nel classico modo con cui si risolvono determinate controversie tra gruppi mafiosi, cioè con un atto di forza cui fa seguito la pace mafiosa. «Si tratta di una pace che entrambi i gruppi hanno rimesso a un soggetto a cui veniva riconosciuta l'autorità mafiosa di governare il conflitto – dirà in Commissione parlamentare Prestipino Giarrittadi attribuire torti e ragioni e di stabilire le regole della futura convivenza e che ha visto, da un certo momento in poi, la prevalenza di un gruppo, il gruppo autoctono, ma non ha visto la scomparsa degli altri. Questa pace, quindi, ha ingenerato, con una posizione di forza nuova e di rapporti di forza, la prevalenza di un gruppo sull'altro, ma anche la coesistenza pacifica sullo stesso territorio».

IL RACCONTO

Per illustrare ai commissari come opera questo secondo gruppo autoctono, come pensa e ragiona, come vive e opera, Prestipino Giarritta ricorre al racconto di un collaboratore di giustizia, secondo il quale il gruppo imponeva il pizzo per 500, 1000 euro, che rispetto al fatturato complessivo sono briciole. Allora perché imporlo?

Lo spiega il pentito e Prestipino Giarritta fa un’analogia con la Calabria.

Il pentito dice: «È una questione – come ti posso di’ – di rispetto nei miei confronti. Io non li voglio per i 500 euro al mese. 500 euro al mese è una stupidaggine per gente come noi, parliamoci chiaro. Sono stupidaggini, ma è una questione di rispetto».
Ed ecco le parole che un ’ndranghetista usa con un altro ’ndranghetista quando gli racconta che era andato da un imprenditore a dirgli: «Tu sei venuto qui a fare un lavoro e non hai pagato ancora nulla». Quando glielo racconta gli dice: «Perché vedi, io ci sono andato e te lo devo dire non è per i soldi, per i 1000 euro, gli ho detto io, non è per i 1000 euro. A me non importa dei 1000 euro. È per il principio. Tu non puoi venire a lavorare da noi senza bussare alla nostra porta, perché vieni da fuori paese».
Non è solo un problema di concetto, spiegherà Prestipino Giarritta, ma c’è addirittura una similitudine linguistica, lessicale, che accomuna questo gruppo al modo tipicamente mafioso di imporre un'attività criminale come quella dell'esazione del pizzo.

SECONDO ESEMPIO

Al collaboratore viene chiesto di spiegare l’uso della violenza. Gli viene chiesto: «Bisogna ricorrere alle intimidazioni, al danneggiamento, all'incendio – parliamo del gruppo autoctono su Ostia – per esigere il pizzo?». Quello dice: «Macché, quando mai? No, no. La gente ha paura già di per sé. Ha paura di per sé sentendo il nome. Su dieci al massimo una o due volte uno deve fare sentire qualche cosa».
Come nel Sud insomma, dove le organizzazioni mafiose sono radicate da troppi decenni. Ma questo è vero anche a Roma. Altro che Ostia o Fregene!

A breve torno con un'altra puntata.

r.galullo@ilsole24ore.com

3       – to be continued (si vedano anche http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/03/pignatone-finora-si-%C3%A8-ritenuto-le-mafie-fossero-un-problema-marginale-a-roma-e-rosi-bindi-porta-al-centro-del-problema.html e http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/03/prestipino-non-c%C3%A8-mafia-vera-senza-rapporti-con-politica-pa-e-apparati-strategie-investigative-a-roma-e-il-poco.html