A forza di voler inseguire le peripezie di Claudio Scajola, ex ministro dell’Interno, arrestato nell’ambito del recente filone dell’indagine Breakfast, si corre il rischio di perdere d’occhio Amedeo Matacena, armatore siculo-calabrese ed ex parlamentare di Forza Italia, condannato con sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Ufficialmente latitante. E si corre il rischio di guardare al particolare dell’opera investigativa e inquirente anziché al quadro nella sua interezza.
Questa riflessione mi è venuta in mente leggendo le 34 pagine dell’appello con il quale la Procura di Reggio Calabria ha fatto ricorso al Tribunale del Riesame contro il diniego dell’aggravante mafiosa (articolo 7 della legge 203/91), già non riconosciuto dal Gip Olga Tarzia nei confronti degli indagati (Scajola incluso).
Quel che dirà il Tribunale del Riesame staremo a vedere, ma intanto andiamo a vedere come la Dda di Reggio (Giuseppe Lombardo) e la Dna (Francesco Curcio) continuano a dipingere Matacena che, secondo l’accusa, è tutt’altro che un concorrente esterno alla ‘ndrangheta (così come riconosciuto con sentenza passata in giudicato) ma la stabile interfaccia della ‘ndrangheta «nel processo di espansione dell’organizzazione criminale, a favore di ambiti decisionali di altissimo livello». E già qui capirete che la differenza è enorme.
Per la Dda, insomma, che ha già sintetizzato questo concetto due anni fa con l’indagine Breakfast e in giudizio con il processo Meta, c’è una “‘ndrangheta che va oltre la ‘ndrangheta”. Ciò che vado ripetendo da anni e per questo ho subito e subisco non poche “attenzioni” dai padroni del vapore.
In questo quadro Matacena è per la Dda uno di quei soggetti che ha garantito ma, soprattutto, garantisce (vale a dire oggi, ora) «la necessaria invisibilità nelle relazione privilegiate con soggetti politici operanti in ambito nazionale ed europeo» e rappresenta il perno «attorno al quale ruota la fitta ragnatela relazionale che caratterizza il mondo imprenditoriale, economico e finanziario, nazionale e internazionale, funzionalmente collegata in un perverso rapporto di prestazioni corrispettive con le più evolute manifestazioni della ‘ndrangheta».
Matacena il grande burattinaio dunque? Ma figuriamoci! Casomai, ovviamente è quel che penso mio, “un” burattinaio e ce lo dicono gli stessi pm ricorrenti, quando scrivono che lui è il perno sì ma con «altre componenti soggettive non interessate dalla presente richiesta». Il che fa arguire che (gli) altri soggetti sono stati individuati eccome, solo che non compaiono in questo filone ma sono altrove. Ne deduco che siano all’interno del filone-madre (cioè Breakfast, che scoperchiò una presunta rete politico/imprenditoriale/professionistica/finanziaria/ndranghetistica, Meta che non ha certo esaurito la sua forza propulsiva e altre inchieste che corrono sull’asse Reggio Calabria-Palermo-Catania).
E dunque a pagina 27 del ricorso si legge che l’attività di protezione svolta a favore di Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è a suo esclusivo vantaggio. Quella latitanza, in altri termini, è un passaggio necessario per proteggere uno strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema ‘ndranghetistico reggino, di cui Matacena è appunto, secondo l’accusa, «componente essenziale e non sostituibile, come accertato definitivamente in sede processuale». Matacena, insomma, non sarebbe un elemento “spurio” ma “strutturale”.
Matacena, per la Procura di Reggio Calabria, è depositario non fungibile di rapporti e relazioni indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi, e nei suoi confronti vige un’opera di preservazione della sua capacità relazionale ed imprenditoriali (vale a dire la parte rilevante del più ampio capitale sociale dell’organizzazione) a favore del sistema criminale mafioso.
Ora alzino la mano coloro i quali, in Calabria e in Italia, avrebbero potuto pensare che questo importante armatore, ex parlamentare di Forza Italia che non ha pressoché lasciato segno in Parlamento nonostante due legislature, amante delle belle donne, scomparso dai radar per molti anni, sostanzialmente sconosciuto oltre i confini dello Stretto, potesse o possa essere uno snodo di quella “‘ndrangheta oltre la ‘ndrangheta” che sta annientando il Paese. Io certamente non ero e non sarei stato tra quelli che avrebbero alzato la mano.
Allora la domanda è la seguente: ma, se è vero l’impianto accusatorio ed è destinato a reggere in fase processuale, oltre a Matacena, chi c’è nella ‘ndrangheta degli “invisibili” che muove le sorti di gran parte del Paese (e non solo)?
Questa non deve essere una curiosità, una domanda “personale” ma un biosgno “collettivo”. Vale a dire che tutta Italia dovrebbe tifare per una rapida conclusione delle indagini e delle inchieste che stanno portando a galla la rete degli “invisibili”.
La necessità, però, è di fare presto perché sono già passati oltre due anni dall’inizio dell’indagine Breakfast ed è tempo di portare a terra le reti. Altrimenti si rischia una pesa a strascico senza fine nella quale si sono già imbattuti (lasciandoci le penne professionali) Agostino Cordova e Gigino ‘o sciantoso (cioè De Magistris). Quando gli squali, infatti, si accorgono che stanno cadendo i tonnetti oltre ai pesci piccoli, fanno di tutto per squarciare la rete e lasciare morire di fame il pescatore-magistrato. Lo abbiamo già visto. Speriamo (io lo spero con tutte le mie forze) di non doverlo più vedere e rivivere.
Forse loro non se ne rendono conto del tutto, ma Federico Cafiero De Raho, Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, nelle mani hanno molto più di una rete. Hanno una parte consistente del futuro di questo maledetto Paese.
r.galullo@ilsole24ore.com