Amati lettori di questo umile e umido blog, sto analizzando con voi l’audizione di Paolo Borsellino il 31 luglio 1988 davanti alla prima commissione referente-Comitato antimafia del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Borsellino era chiamato a spiegare il senso di un’intervista rilasciata 11 giorni prima a Repubblica e Unità sul rischio di smantellamento del pool antimafia di Palermo.
Ieri abbiamo visto il senso dello Stato del giudice nella lotta a Cosa nostra e la necessità, ineludibile, di portare l’opinione pubblica a conoscenza non solo dei passi avanti nella lotta alla mafia ma anche dei rischi di stop ai processi preventivi e repressivi nei confronti dei sistemi criminali.
Oggi proseguo su questa falsariga riproducendo la risposta che Borsellino diede quel 31 luglio 1988 al componente del Csm Sergio Letizia che gli chiedeva conto delle sue uscite pubbliche e su carta stampata.
«Non mi sembrerebbe corretto non dibattere di questi problemi – dirà Borsellino – e dibatterne anche all’esterno della magistratura. Il problema della lotta o comunque delle indagini sulla criminalità mafiosa io lo sento profondamente, l’ho sentito, sono stato disposto ad affrontare sacrifici, non vedo perché l’opinione pubblica non debba essere interessata di questo problema; anzi è pericoloso quando l’opinione pubblica non viene interessata a questo problema; è grave con riferimento alle indagini sulla criminalità mafiosa che l’opinione pubblica se ne disinteressi o le sopporti cosi, come se si trattasse di assistere ad una lotta tra giudici e mafiosi, visto che non è una lotta tra giudici e mafiosi, né tra poliziotti e mafiosi, ma è un problema che interessa tutti».
Poco dopo, a Vito D’Ambrosio che espressamente gli chiese: «Dunque lei è convinto che l’opinione pubblica debba essere il più possibile informata?». Borsellino risponderà: «Secondo me è indispensabile. Veda, io ho citato più volte un esempio, se mi consentite trenta secondi ve lo cito: io sono vissuto in una società in cui quando avevo quindici anni un mio compagno di scuola si vantava di essere figlio o nipote del capo mafia del suo paese e io lo invidiavo. Oggi, al di là di quello che è lo sbocco giudiziario di queste indagini, cioè al di là delle eventuali condanne, le indagini stesse hanno avuto di riflesso una valenza culturale, proprio perché sono state diffuse, perché sono state rese pubbliche, perché la gente se ne è interessata, perché oggi non ci sono probabilmente più a Palermo giovani come me a quindici anni che invidiano il compagno di classe perché figlio del capo mafia. Purtroppo c’è sempre, ed è estremamente diffusa, la voglia di convivenza col fenomeno mafioso; però, con riferimento specialmente alle giovani generazioni che sono quelle che hanno meglio recepito questo messaggio indirettamente culturale delle indagini e dei processi, la situazione sotto questo profilo è migliorata. Quindi ritengo che sia indispensabile che vi sia un dibattito culturale e il massimo di informazione possibile sui problemi inerenti le indagini sulla criminalità mafiosa e a criminalità mafiosa in genere».
Ahinoi, recenti episodi in Calabria testimoniano che ci sono 15enni che anelano entrare nella ‘ndrangheta e per soddisfare questo desiderio mortale si raccomandano alla figlia del boss con una lettera da consegnare al padre, ma a parte questo profilo devastante e inconcepibile per un giudice della levatura di Borsellino, la sua è l’ennesima lezione di democrazia.
A breve ritorno con un nuovo approfondimento.
2 – to be continued (per la precedente puntata si legga