Chi di trame si intendeva oltre ogni ragionevole dubbio, diceva che a pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.
Questa frase mi torna in mente oggi, momento storico in cui si parla e si scrive (per l’ennesima volta) del trasferimento da Palermo ad altra sede (e dove se non in Dna a Roma?) del pm Nino Di Matteo, anima del processo (ma sarebbe corretto dire dei processi) sulla trattativa tra Stato e mafia (ma sarebbe più corretto dire tra Stato infedele e mafie).
Come la penso sul caso credo di averlo scritto e detto decine e decine di volte (rimando a fondo pagina con alcuni link): il mio appoggio al pm è totale così come totale è la mia convinzione che lo Stato infedele (che vive e lotta come e più di prima in mezzo a noi) da tempo immemore lo voglia morto. Che sia poi Cosa nostra a darsi da fare per ucciderlo è una conseguenza naturale e mostruosa di quanto sopra. Le mafie sono agenzie di servizi e come tali operano.
Orbene (si fa per dire) alcuni media nelle scorse ore hanno dato notizia che Di Matteo sarebbe nuovamente a rischio imminente di morte e, per questo motivo, il Csm lo ha audito.
Ora, a prendere buone le indiscrezioni, il Csm avrebbe nuovamente proposto a Di Matteo un trasferimento extraordinem da Palermo (vale a dire legato a ragioni eccezionali, tali da derogare alle ordinarie procedure di mobilità del personale di magistratura) e lo stesso pm si sarebbe riservato di accettare, essendo tra l’altro pendente un suo ricorso contro la bocciatura nella primavera 2015 del suo ingresso nella Direzione nazionale antimafia. Non solo: lungi da Di Matteo l’idea di dare la sensazione di voler fuggire, in altre parole di arrendersi e, soprattutto, desidera degnamente e giustamente entrare in una sede per la quale ha concorso per meriti e non certo per falsa pietas.
Fin qui la notizia che – ovviamente – alcuni coraggiosissimi colleghi (si fa per dire) si son ben guardati dall’approfondire. Approfondire significherebbe andare oltre la notizia e provare a capire cosa si cela tra le pieghe dell’eventuale trasferimento di Di Matteo da Palermo.
Proprio questo è il punto: il pm non ha intenzione di mollare il processo sulla trattativa e, per quanto siano appese ad un sottilissimo filo le possibilità di spuntarla in giudizio e credo che lui stesso se ne renda conto insiemi ai suoi colleghi di pool, potrebbe continuare a farlo solo applicandosi al procedimento in Dna. Quella Dna però dalla quale – ricordiamolo – per motivi che a questo umile e umido blog appaiono incomprensibili e cavillosi, è stato già respinto via Csm.
Volete che la dica tutta? Tanto l’ho già scritta negli anni passati: in Dna non (tutti) lo vogliono.
Volete che la dica ancora più netta: Di Matteo sarebbe del tutto incompatibile (ed uso un eufemismo) con alcuni magistrati che da tempo risiedono in Dna e che pubblicamente (oralmente e per iscritto) si sono lanciati contro la temerarietà del processo istruito dal pool antimafia di Palermo. Del resto all’isolamento Di Matteo è abituato: negli stessi palazzi di Giustizia siciliani sono anni che – ad ogni piè sospinto – molti suoi colleghi fanno a gara per ridicolizzare la condanna a morte alla quale, secondo ricostruzioni investigative e voci di pentiti ritenuti attendibili, sarebbe stato destinato dalla cupola nota ma soprattutto dalla cupola invisibile della miscellanea mafiosa. Ora c’è dunque da chiedersi legittimamente con quale spirito collegiale potrebbe continuare ad essere applicato in Dna al processo sulla trattativa, atteso il fatto che alcuni suoi vicini di scrivania non perderebbero ancora occasione per ricordare le divergenze di pensiero.
Volete che la dica più netta ancora? Se prima era buona parte della politica a non volerlo a Roma, ora quella stessa buona parte di politica spera che plani in Dna, depotenziato dall’aria ostile che si troverebbe costretto a respirare anche nella Capitale. Colpire uno per educarne cento.
Volete che aggiunga un’altra riflessione? Quella (ampia) quota di politica allevata per diventare parte invisibile del sistema criminale nelle Istituzioni, spera invece che resti a Palermo affinché possa essere umiliato processualmente e magari saltare per aria.
Comunque vada Di Matteo è in un cul de sac, con tanti complimenti allo Stato.
Se resta a Palermo il rischio di morte è elevatissimo (sempre più) perché il sistema criminale che regola come un termostato la temperatura sociale e politica in Italia non può permettersi che prosegua con il pool nel processo e, qualora anche ne uscisse sconfitto, non sarebbe una lezione sufficiente.
Se plana a Roma si troverebbe una fanfara di benvenuto da parte di alcuni suoi colleghi che in confronto la marcia funebre suona a festa.
Se accetta il trasferimento straordinario ci sarà sempre qualcuno che dirà che lo ha fatto per evitare di cadere giudiziariamente sul campo.
Se non accetterà il trasferimento una parte dei suoi colleghi si sarà sciacquata la coscienza potendo dire che la via d’uscita l’aveva ma l’ha rifiutata e un’altra parte dirà che vuole fare la figura del martire.
Comunque vada è una sconfitta per lo Stato. Rectius: per quella quota parte che crede che un Servitore dello Stato come Di Matteo vada protetto (non certo solo con una scorta) e vada messo nelle condizioni di svolgere al meglio il proprio lavoro. Ambo le cose non sono scientificamente (non certo per caso) accadute.
Resta – oltre questa sostanza – la possibilità di un’apparenza. Vale a dire che il ricorso venga accettato o che Di Matteo, partecipando ancora al concorso per accedere in Dna, faccia ingresso nella Direzione nazionale antimafia con le proprie forze e per i propri meriti, pur conscio delle difficoltà descritte. Lo Stato non si sarebbe certo riscattato ma l’altro Stato, quello infedele e marcio che scorre nelle vene di quello sano, ne uscirebbe per una volta sconfitto.
(si leggano anche