La continua mattanza in Campania tra le giovani leve dei clan della camorra, da sempre molecolare e capillare sul territorio regionale, ha fatto riemergere (nelle parole del ministro dell’Interno Angelino Alfano) perfino la necessità di impiegare l’Esercito.
Dico “perfino”, perché – come testimoniano precedenti e anche recenti casi in Sicilia e in Calabria – l’impiego dell’Esercito serve (a qualcosa) nel breve periodo, resta un ricordo (sbiadito) nel medio tempo ed è inutile (totalmente) nel lungo periodo, quando cioè caschi e baionette rientrano di buon ordine alla base e a rastrellare e dominare il territorio restano i controllori di ieri, oggi e (purtroppo) domani: i mafiosi.
Ora, che le mafie non si sconfiggano con l’Esercito ma con un esercito di insegnanti ce lo insegna lo scrittore di Comiso Gesualdo Bufalino ma che lo scatto debba essere culturale e non del grilletto di una fucile, in Italia non frega nulla a nessuno (figuriamoci alla politica).
Ora – per restare nella tassonomia, vale a dire la disciplina della classificazione – vediamo che cosa ci racconta la Dia (che ha presentato l’ultima relazione pochi giorni fa al Parlamento) sull’evoluzione della camorra in Campania. E già, perché per capire se l’Esercito serve o meno (e, ripeto, serve solo per tempi brevi perché infonde qualche timida forma di speranza nella collettività) è bene conoscere anche i profili evolutivi delle mafie.
Ebbene, ciò che scrive la Dia è devastante e fa capire che baschi e baionette restano (sarebbero) una mossa disperata (come sempre in questi casi). «Le organizzazioni camorristiche – si legge nella relazione – sebbene si caratterizzino per una evidente frammentazione e per degli equilibri fortemente instabili, si ritiene possano continuare nell’opera di condizionamento culturale delle fasce più deboli della popolazione, ambendo a porsi quale punto di riferimento unitario ed alternativo allo Stato, soprattutto nelle aree economicamente e socialmente più “deboli” e quindi più esposte alle insidie dei clan, che sfruttano la possibilità di offrire opportunità di guadagno, sebbene da fonte illecita, alle fasce più povere della popolazione, restando così elevata la capacità dei sodalizi di reclutare adepti».
Orbene: lette queste note, secondo voi, qualcuno, nell’ampia categoria dei disperati abbandonati dallo Stato, a Napoli come a Caserta, può spaventarsi di fronte ad una canna di fucile se deve mettere insieme il pranzo con la cena per una nidiata di persone? La Dia parla espressamente di «condizionamento culturale» e da che mondo è mondo alla incivile cultura delle mafie si ribatte con la cultura di valori e principi che debbono partire dai banchi di scuola e arrampicarsi su per li rami delle Istituzioni a servizio dei cittadini e non certo aggrovigliarsi intorno alla canna di un fucile mitragliatore.
Ma l’analisi della Dia continua con lucidità: «Allo stesso modo si può tracciare una linea di continuità, per il medio e breve periodo, rispetto alle modalità di infiltrazione delle pubbliche amministrazioni. Anche le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici appaiono esposte ai medesimi pericoli di infiltrazione, come rilevabile dalle attività investigative che hanno documentato come i clan si siano rivelati pronti a sfruttare la permeabilità delle Istituzioni».
In pratica: ammesso e non concesso che arrivi l’Esercito, i clan della camorra, da tempo immemorabile, hanno già indossato l’unico giubbotto antiproiettile che sia in grado di non fermare e far proliferare i propri traffici mortali: quello del volto apparentemente pulito delle stesse Istituzioni che, con la propria corruzione e corruttibilità, sono l’altra faccia (indispensabile) per ogni tipo di mafia.
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