C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: il tentativo di limitare la libertà di stampa. La parafrasi dell’Aquilone di Giovanni Pascoli sarà pur banale e scontata ma rende l’idea alla luce dell’ultimo anello che si aggiunge ad una catena infinita. Solo che Pascoli proseguiva così: «io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole». La libertà di stampa, invece, intorno ha solo indifferenza della collettività (vale a dire la maggior forma di disprezzo possibile), una politica che gode ad ogni paletto o limitazione posta alla libertà di stampa, molti colleghi giornalisti sordi, mansueti e appecoronati ed un Ordine inerte (al di là delle stucchevoli solidarietà di rito; se le limitazioni vengono reiterate la colpa è innanzitutto della categoria e di chi dovrebbe rappresentarla in nome e per conto non proprio ma della democrazia).
L’ultima ferita alla libertà di stampa proviene dalla Procura di Reggio Calabria che ha indagato Marco Lillo con l’accusa di concorso in rivelazione di segreti di ufficio.
Lillo, che non ho mai avuto il piacere di conoscere personalmente, nelle settimane scorse, a puntate sul Fatto Quotidiano e sulla versione online dello stesso giornale, ha pubblicato e commentato “alcune” intercettazioni della stessa Procura nell’ambito dell’indagine Breakfast della Dda di Reggio Calabria.
Dico e sottolineo “alcune” intercettazioni per due motivi: il primo è che, come spiega oggi lo stesso Fatto Quotidiano, i brogliacci delle intercettazioni sono giunti con plico anonimo alla redazione; il secondo (e più importante) motivo è che non sono certo quelle intercettazioni pubblicate, ma ben altre, il piatto forte delle stesse registrazioni telefoniche e ambientali operate dalla polizia giudiziaria nell’ambito di un’inchiesta che Dio voglia esplichi presto e appieno i suoi effetti.
Chi ha spedito in plico anonimo quelle e solo quelle intercettazioni aveva perfettamente chiaro l’obiettivo: lanciare messaggi a “terzi” e danneggiare l’indagine ma soprattutto, attenzione, le sue evoluzioni giudiziarie e processuali; sapeva – al tempo stesso – che il Fatto Quotidiano avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere: pubblicare (dopo averle verificate) le notizie relative ad un’indagine calabrese che aveva seguito fin dal sorgere. Del resto – se non ricordo male avendo appena festeggiato i 30 anni di professione – i giornalisti (quelli degni di questo nome intendo) vengono remunerati dal proprio editore e letti proprio per questo: portare notizie e pubblicarle senza guardare in faccia a nessuno.
Orbene è giusto mettere in evidenza altre cose: ho grandissimo rispetto per il capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e so dunque che la sua interpretazione è quella di un atto dovuto (del resto non è il primo nei confronti della stampa) sulla base di una necessità intrinseca e legittima di proteggere un’indagine delicatissima che in molti attendono nella sua esplosione derivante da una certosinità di prolungate attività svolte negli anni.
L’atto dovuto – purtroppo – cozza non solo contro la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non solo contro le sentenze della Corte di Strasburgo dei diritti dell’Uomo, non solo contro l’articolo 21 della Costituzione, non solo con il primo articolo della Carta dei doveri dell’Ordine dei giornalisti («il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile»), ma anche e soprattutto contro la logica del diritto di ogni cittadino ad essere informato “dei” e “sui” fatti. E quelli raccontati da Marco Lillo e dal suo giornale sono fatti. Fatti non penalmente rilevanti ma fatti che testimoniano come i poteri che governano questo Paese intendono la democrazia.
Ora, il capo d’accusa è il concorso (esterno) in rivelazioni di atti d’ufficio. Se così fosse, Lillo brinderebbe e con lui l’intera redazione del Fatto Quotidiano e perfino l’Ordine, risollevato dopo languido torpore. Già, perché come scrive sempre oggi il Fatto Quotidiano, Lillo è indagato perché avrebbe pubblicato gli articoli «al fine di procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale (consistito nel fine di incrementare le vendite con la pubblicazione in forma esclusiva e programmaticamente reiterata riguardante esponenti della politica e delle istituzioni)». In altre parole, le conversazioni non sarebbero state pubblicate per dovere di cronaca ma solo per far vendere più copie al Fatto Quotidiano e per avere più accessi alla versione online. Ogni commento sarebbe superfluo, perché nulla può più offendere, infamare e delegittimare un Giornalista più dell’accusa (anche solo la presunzione o la supposizione) di pubblicare una notizia per fini diversi da quello del diritto/dovere costituzionalmente garantito di informare i lettori. Il diritto di cronaca per un Giornalista non è una seconda ma una prima pelle.
Ebbene, Lillo, Travaglio, Gomez, Padellaro e gli altri colleghi alla direzione del quotidiano sanno perfettamente che per lo stesse identiche motivazioni (vendere più copie o financo il desiderio di accrescere il proprio prestigio professionale, come fosse una colpa e non un merito qualora fondato sulla professionalità) altri colleghi sono indagati o hanno subito o stanno subendo paradossali e incredibili processi con un’accusa tremendamente più grave e infamante: ricettazione o concorso in ricettazione. E’ questa infatti la clava che – con un magico passaparola tra alcune Procure – si agita contro quella libertà di stampa che dà fastidio. Quella che non dà fastidio – e che non teme dunque indagini – è quella invece che sgorga come fonte sorgiva dalle stelle veline degli uffici giudiziari per fini che non sono certo quelli dell’irrefrenabile concorso (esterno) alla libertà di stampa.
Ricordo – così, tanto per rendere l’idea ai nostri lettori ignari delle conseguenze – che per questo reato (ricettazione) si rischiamo dai due agli 8 anni di galera e che c’è chi è giunto a discettare dell’arresto di giornalisti indagati per questa fattispecie criminosa, che è quanto di più distante dalla logica di ogni Giornalista degno di questo nome. Come ben sanno molti colleghi, però, proprio lo spettro ignominioso dell’accusa di ricettazione, spinge molti giornalisti a essere cauti nella pubblicazione di notizie violentando dunque se stessi e provocando un vulnus letale per la democrazia.
La strada scelta dunque dalla Procura di Reggio Calabria è un mix che sa di soppesata meditazione. Perché? Perché la stessa Procura sa perfettamente che quelle intercettazioni sono uscite dal sen delle stesse Istituzioni (sono certo che un’idea chiara la abbiano) che dovrebbero gelosamente custodirle e che invece utilizzano o sono costrette a propagare parte delle attività svolte per fini diversi.
Ebbene, su quei fini diversi. la Procura di Reggio Calabria, sono certo, sta già indagando. Fini che non necessariamente restano nei miseri confini calabresi ma che si riannodano a fini superiori e deteriori che, su per li rami, conducono verso altre sponde, verso quelle stanze dove i poteri (marci) tentano di decidere fino a dove le indagini devono e possono spingersi.
La mia solidarietà a Lillo, al Fatto Quotidiano e in primis alla libertà di stampa, come credo abbiano testimoniato queste poche riflessioni, non è di facciata. E’ di sostanza.
r.galullo@ilsole24ore.com