Cari lettori, molti di voi sanno che nel passato mi sono occupato del cosiddetto “Protocollo farfalla”, vale a dire la collaborazione tra agenti di Polizia penitenziaria e agenti dei servizi di sicurezza, nel periodo 23 giugno 2003-18 agosto 2004 (ma si aggiunge il periodo 25 novembre 2005 -2 febbraio 2007 che assumerà la veste formale di “operazione Rientro”).
Ebbene il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), a fine marzo ha diffuso 31 pagine di relazione (approvata il 12 marzo) trasmessa alle presidenze delle Camere che è tutta da leggere (sul sito Copasir troverete la versione integrale).
Mi scuso se l’analizzo con tanto ritardo ma, in queste settimane, sono stato preso da altro. Rimedio da oggi con una serie di servizi dedicati ad alcune delle pagine più tristi (fra le innumerevoli) dei rapporti all’interno dello Stato volti a combattere le mafie.
Orbene: perché il Copasir ha svolto questa relazione alla fine di un lungo cammino intrapreso il 20 ottobre 2014 e chiuso il 10 febbraio 2015? Perché voleva «procedere all’accertamento della correttezza delle condotte poste in essere da appartenenti o ex appartenenti agli organismi informativi» così come prevede l’articolo 34 della legge 3 agosto 2007 n.124. Punto e a capo.
E perché è spinta a questo l’8 ottobre 2014? Non per intrinseca e fondante sede di verità ma «alla luce di notizie di stampa e di dichiarazioni pubbliche di soggetti anche istituzionali…. Verso la fine del mese di settembre 2014, sulla base di notizie giornalistiche, si è sostenuto che l’attività dei Servizi, specialmente in materia di criminalità mafiosa in connessione con il mondo carcerario agli inizi degli anni Duemila, si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura». Punto e a capo.
Già quanto si legge a pagina 4 della relazione vale la messa che quei maledetti dei giornalisti hanno fatto officiare al Copasir. Leggete voi stessi: «Il rapporto tra Servizi e detenuti in carcere è da sempre un tema discusso e interpretato, fino alla Convenzione tra Aisi e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del 2010, in modo personale e discrezionale dai soggetti operanti. Il quadro normativo è mutato con la legge di riforma dei Servizi n. 124 del 2007…».
Un Paese normale (e non avvelenato giornalmente a piccole dosi antidemocratiche fino al punto di renderlo immune alla democrazia stessa come scrivevo la scorsa settimana su questo blog a proposito di Palermo e dell’Italia tutta) dovrebbe già saltare nel leggere che i rapporti tra servizi segreti e detenuti (quelli che interessano non sono ovviamente i ladri di pollo ma mafiosi e terroristi) fino al 2007 erano all’insegna della “soggettività” e “discrezionalità” delle parti. Ovviamente, non sobbalza nessuno. Ma andiamo avanti che il bello deve ancora venire.
Nel 2002 gli allora ministri dell’Interno e della Difesa individuarono tra gli obiettivi prioritari del Sisde (l’allora Servizio per l’informazione e la sicurezza democratica sostituito con la riforma legislativa del 2007 dall’Aisi) il contrasto della criminalità organizzata focalizzato sull’evoluzione dei modelli organizzativi mafiosi e sulle dinamiche del “carcerario” e ne diedero comunicazione nella relazione del secondo semestre del 2003 in cui si riferiva della conflittualità tra le famiglie mafiose e dell’isolamento di alcuni loro esponenti di spicco sottoposti al carcere duro (41-bis).
Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario della relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista.
Il Sisde organizzò due risposte operative: 1) attivare una serie di centri territoriali nelle città e nelle aree ad alta intensità criminale mafiosa come Palermo, Catania, Reggio Calabria, Napoli e Bari; 2) intensificare e strutturare il rapporto con il Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria).
Queste iniziative produssero un primo risultato: una nota del 25 giugno 2003 (“Settore carcerario: progressioni informative”) che venne consegnata al ministro della Giustizia e che suggeriva di continuare a sostenere ed incrementare l’attività di informazione per assicurare un quadro conoscitivo e contemporaneamente trasmettere al Cesis (il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza attivo fino alla riforma legislativa dei servizi del 2007, alle dipendenze del Consiglio dei ministri) tutte le informazioni utili per rappresentare al Parlamento lo stato di disagio del settore carcerario.
Vivaddio ma…Ma a pagina 11/12 della relazione il Copasir scrive che «alla luce della documentazione acquisita e delle risultanze emerse durante l’indagine condotta dal Comitato, tali informazioni non risultano poi essere state trasmesse al Cesis. Il direttore del Sisde era all’epoca dei fatti il generale Mario Mori, proveniente dall’Arma dei Carabinieri, mentre il direttore del Dap era il dottor Giovanni Tinebra, già procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Il dottor Salvatore Leopardi, responsabile dell’Ufficio ispettivo e di controllo del Dap, anch’esso già pubblico ministero a Caltanissetta, fu incaricato delle prime acquisizioni generali di informazioni finalizzate a verificare l’incidenza esterna di alcuni soggetti criminali e le strategie delle organizzazioni criminali. Si tratta delle prime acquisizioni parte di un progetto informativo che di lì a poco sarebbe divenuto un’operazione di intelligence».
Insomma, se le parole hanno un senso il Cesis (vale a dire il Governo, visto che era un organo dipendente direttamente dal Consiglio dei ministri) non era stato informato dal Sisde. Il ministro della Giustizia sì.
Per ora mi fermo ma domani torno con un nuovo approfondimento.
1 – to be continued (si vedano anche