Il 17 marzo Vincenzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, ha incontrato la Commissione bicamerale d’inchiesta sulle mafie.
Per chi volesse saperne di più su come è miseramente ridotta la libertà di stampa in questo Paese rimando al link nel quale potrete leggere l’interessantissima relazione di Iacopino e il costruttivo botta e risposta che ha avuto con i commissari: http://www.camera.it/leg17/1058?idLegislatura=17&tipologia=audiz2&sottotipologia=audizione&anno=2015&mese=03&giorno=17&idCommissione=24&numero=0083&file=indice_stenografico.
L’audizione sostenuta contiene molti spunti e, a mio modesto avviso, anche molte cose che non sono state scavate e approfondite come avrebbero dovuto. Non certo per colpa di Iacopino ma perché il tempo è quel che è (e credo anche la voglia della politica che blandisce i media quando può, li tollera quando non può farne a meno e li bastona appena si presenta l’occasione).
Ad esempio la mortale mannaia dell’accusa di ricettazione che ormai è diventata un filo rosso che unisce le procure, per chi pubblica atti sgraditi al potere (gli altri vengono allungati dallo stesso sottobanco e assicurano immunità completa) avrebbe meritato ben altro approfondimento. Quello della ricettazione è un crinale molto sottovalutato e che porterà disastri su quel poco che rimane della libertà di stampa (ormai demandata ai singoli o a chi alle spalle ha immense reti di protezione).
Gli spunti, come scrivevo sopra sono moltissimi e spero davvero che molti lettori del blog clicchino su quel file, in modo da capire, conoscere e giudicare.
In questo post odierno riporterò un caso che a molti potrebbe sembrare paradossale ed invece è esplicativo della quotidiana follia che sovrasta, come una nuvola inibitoria, la stampa italiana.
Iacopino cita il caso di un settimanale di politica e cultura di Matera, “Il Resto”, che ha ricevuto circa 60 querele per 140 articoli nell’arco di quattro anni. Se non è record mondiale poco ci manca. Tutti i procedimenti, tranne sette od otto, si sono conclusi con l’archiviazione o con il proscioglimento, con le formule varie. Ne rimangono aperti altri sette od otto, ricorda Iacopino.
Le condanne su 140 articoli sono state due in primo grado. Si tratta di articoli del 2006. Non viene fissata l’udienza per la celebrazione del grado di appello, perché si conta che si possa dichiarare l’estinzione per avvenuta prescrizione. Iacopino oltre a ricordare questo, ricorderà anche che i colleghi del Resto rinunceranno alla prescrizione perché vogliono essere giudicati.
Iacopino entra poi nel dettaglio di una storia che, se non fosse raccontata dal presidente del mio Ordine professionale, stenterei a credere.
Un allora parlamentare della Repubblica propose una serie di querele contro il giornale, per la precisione contro settanta articoli. Il giornale gli scrisse: «Se il senatore ritiene di essere stato diffamato, ci quereli pure. Affronteremo serenamente il giudizio. Prima di querelarci, rinunci alla corazza dell’immunità parlamentare, altrimenti la sfida non è ad armi pari. E così, un cavallo e una lancia, risolveremo le cose come si usava nel Medioevo».
È ironia di dubbio gusto, strappa forse un sorriso, afferma Iacopino di fronte ai commissari (spero allibiti) ma non al pubblico ministero, il quale, scrive il collega, accusa la testata di violazione dell’articolo 610 per violenza privata, perché, con questa frase testuale, «minacciava il senatore, invitandolo allo scontro fisico con l’uso delle armi».
Il giornalista al quale perquisirono la casa si chiama Nicola Piccenna. Il querelante era l’allora senatore Nicola Emilio Buccico.
Iacopino è soave e leggero nel racconto espositivo (ma credo e spero incazzatissimo dentro): «Devo dire la verità: ci sono andato. Questo cavallo non riusciva a salire per le scale perché erano proprio strette, erano quelle scale circolari strette strette. Non riusciva a ruotare. Non hanno trovato, ovviamente, né il cavallo, né la lancia».
Questo procedimento ha girato varie procure. A Catanzaro era il n.1934 del 2013. È stato definito con una richiesta di archiviazione accolta il 31 luglio 2014 per infondatezza della notizia del reato. Si è domandato Iacopino e (indirettamente) ha dunque chiesto alla Commissione antimafia (e dunque ad un alto consesso della politica): «Qualcuno paga? Qualcuno compensa l’intimidazione che deriva da settanta articoli querelati? Qualcuno domanda? Davvero si può credere che con un cavallo e una lancia evocati nel duemila e non so quale anno, si possa minacciare qualcuno?».
Ci sono stati sette mesi di intercettazioni per individuare il sito in cui veniva ospitato il cavallo e in cui veniva nascosta la lancia, sette mesi di intercettazioni, con oltre 10.700 telefonate intercettate. Da nessuna è venuto fuori alcun elemento di contestazione.
Non c’è che dire siamo messi bene. Il cavallo non è stato trovato ma purtroppo restano i cavalieri della politica e i loro vassalli.
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