Ho sempre creduto nel dubbio. Lo considero il principale pregio di un giornalista. Solo il dubbio, infatti, consente di scavare nelle verità che, a piene mani, vengono scaraventate addosso alla nostra categoria.
Le verità della magistratura, la verità dei partiti, la verità della politica, la verità dei pentiti, quella dei pentiti che si pentono di essersi pentiti e poi magari si ripentono, la verità degli imprenditori che si abbeverano alla mangiatoia pubblica e sono poi i primi a chiedere “più mercato”, la verità dei giornalisti schierati oppure quella della quota parte di classe dirigente marcia che governa questo Paese.
Non ho mai creduto alle verità come appaiono, quelle che Giuseppe Lombardo, pm della Dda di Reggio Calabria chiama le “mezze verità”. Quelle pronte da “bere” come la Milano dei bei (!) tempi che furono. Non crediate sia facile non credere alle “mezze verità”: si pagano prezzi altissimi.
Il legittimo dubbio ha fatto ritenere ad una parte della stampa che il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante sia o possa essere effettivamente quel losco figuro che viene (o verrebbe) dipinto da alcuni pentiti di Cosa nostra gestiti, non senza colpi di scena in fase di evoluzione, tra la Procura di Caltanissetta e quella di Catania.
Nulla quaestio. Sarà la magistratura a tentare di provare cosa c’è di vero, cosa c’è di falso, ma soprattutto cosa c’è in quel “mondo di sopra” che a Roma stanno ancora aspettando di scoprire, mentre in Sicilia, così come in Calabria, è in piena evoluzione da decenni, come del resto sa chi, come l’attuale procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, quasi 20 anni fa provò a dimostrare, senza successo, la realtà dei sistemi criminali che corrono ben oltre un criminale mafioso. Toccherà, eventualmente, ad un aula di Tribunale giudicare fino a eventuale terzo grado.
Il dubbio, amico di penna (ormai si può dire di mouse e pc) mi spinge a continuare a scrivere del “caso Montante” proprio ora che toccherà alla magistratura spegnere il ventilatore che, dopo essersi acceso mediaticamente, da qualche giorno sembra in “pausa”. Come? Chiudendo presto le indagini (a meno che una fila di batteria non moltiplichi i 180 giorni a disposizione di ciascuno per raccontare la propria verità e allora la graticola girerà a lungo con buona pace della Giustizia).
Sono fatto così. Quando gli altri parlano taccio. Quando gli altri tacciono, scrivo. Non mi interessa prendere parte a contese sulla pelle dell’antimafia (ho già scritto e detto che non sta a me difendere Montante) ma provare a capire fino in fondo esercitando e sublimando l’arte del dubbio (si veda anche link a fondo pagina con precedente articolo) .
E così il dubbio mi porta a scavare in una parola: delegittimazione, che declino in alcune delle varianti possibili in quel della provincia nissena.
Forse abbiamo perso di vista un fatto apparentemente secondario ma invece di primaria importanza. Questa vicenda nasce nella culla di Cosa nostra, quel “vallone” nisseno dal quale nobiluomini (spero si arguisca l’ironia) quali Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini dettavano legge alla Sicilia intera e apparecchiavano la tavola (rectius: le battigie) agli alleati “ammerrecani”.
In altre parole, come si direbbe nella mia amata Roma, «quando voi eravate ancora sugli alberi, noi eravamo già froci», che tradotto vuol dire: a Cosa nostra nissena nessuno può insegnare nulla.
E nessuno, dunque, può dimenticare che nel 2007, subito dopo l’approvazione del codice etico, la sede di Confindustria di Caltanissetta (proprio laddove nacque la rivolta contro i “prenditori”, in casa propria, nella classe industriale siciliana) fu rivoltata come un calzino per leggere (e fotocopiare e duplicare?) atti e documenti anche riservati. Guarda tu la vita, proprio quando, nei tempi in cui la rivolta suonava, alcuni notabili dell’associazionismo e della vita economica nissena erano dediti a profondissime e minuziose attività di dossieraggio ad uso di capi mafia dal colletto bianco e dall’anima nera.
Non ricordavo a memoria – per riportarlo alla mente ho dovuto ricomporre le tessere di un puzzle che ho ricostruito anche grazie a quella potenziale fonte che è Internet – che in questi anni, ogni qual volta c’è stato un passo avanti decisivo della genia industriale e imprenditoriale che si è mossa all’unisono (sarebbero dunque tutti potenziale amici di presunti amici dei mafiosi? La domanda a me pare legittima) dietro a Lo Bello e Montante e al loro grido di rivolta contro l’omertà mafiosa (il primo nemico di Cosa nostra è la parola, dopo vengono, di conseguenza, gli atti), c’è stata una reazione uguale e contraria a quella alla quale pare di assistere in questi giorni. Pare: come vedete dubito.
Un’escalation che non poteva portare (all’epoca) a omicidi per un riflesso condizionato e per una ragione pratica. Il riflesso condizionato risiede nel fatto che ai pupi di Cosa nostra manovrati dalle menti raffinate sembrava impossibile ricevere un “no” a richieste che fino a quel momento non potevano essere rifiutate (pizzo e protezione) e che addirittura sfociava in denunce in sede penale degli affamatori aguzzini. Che succede? si saranno chiesti pupi e pupari.
La ragione pratica è che uccidere chi si opponeva a Cosa nostra tra gli imprenditori era difficile: le scorte, che talvolta sono messe a protezione degli inutili, questa volta erano messe a disposizione di qualcuno utile alla causa di civiltà sociale ed economica.
Bisognava fare, dunque, troppo rumore. Meglio lanciare la scia lunghissima e distillata della delegittimazione.
Volete due-esempi-due dell’escalation diffamatoria e delegittimante di questi anni? Quando l’imprenditore che opera nel settore dell’ambiente Giuseppe Catanzaro, attuale numero 2 di Confindustria Sicilia, denunciò ad Agrigento i suoi carnefici, partì la crociata non contro – si badi bene – le sue battaglie ma contro il suo passato e le presunte ombre che lo avvolgevano. Quella scia non si è ancora spenta.
Lo schema – mutatis mutandis – si ripropose con Ivanhoe Lo Bello, attuale vicepresidente nazionale di Confindustria, che nel 2010, stufo della cappa di omertà e ipocrisia che gravava (e grava oggi più di ieri) su Catania, scoperchiò anche con un’intervista al Corriere della Sera il maleodorante pentolone delle aree industriali, del movimento terra, dei trasporti e dell’edilizia. A Palermo ci furono, in manifestazioni pubbliche, slogan, cori e striscioni contro colui il quale voleva contribuire a cambiare, con i fatti, le cose. E i fatti (non le chiacchiere) dicono che fu Lo Bello a mettere nero su bianco una frase sconcertate (non per chi, come me, segue l’evoluzione delle mafie) nella nota riservata di Confindustria per il vertice nazionale della sicurezza svolto a Caltanissetta il 21 ottobre 2013 finita nelle mani del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Con riferimento ad un settore nel quale oggi sono ancora in piena evoluzione le indagini della magistratura, (non lo cito per non dare vantaggi a chi deve sentire invece il fiato sul collo della Giustizia) Lo Bello scrisse testualmente e Montante controfirmò, che «il territorio della provincia di Catania ha un ruolo ancora più rilevante, in quanto Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra lavorano congiuntamente e regolano il mercato a livello nazionale». Precedevano e seguivano nomi e cognomi. Quella scia non si è ancora spenta.
Credo che la delegittimazione (l’ho scritto mille volte su questo umile e umido blog con riferimento a tante altre vicende inquietanti) sia la culla della morte. Più della morte fisica la delegittimazione è in grado di uccidere, perché colpisce il luogo di una vita: la purezza dell’anima.
Ma attenzione: quando la delegittimazione fallisce dopo aver usato, nella sua escalation, armi estreme e radicali, quando non riesce nel proprio intento e quando la corsa non si può arrestare, non resta che la morte. Quella fisica. Quella che uccide un uomo per educare un popolo come, in Sicilia e nel Sud, è stato troppo spesso educato.
Non sono solo io a pensarlo. A meno che nella genia dei soggetti pericolosi dell’antimafia parolaia non rientri anche il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, fu proprio lui, Salvatore Cardinale, il 24 gennaio 2015, in apertura di anno giudiziario, ad affermare: «…in tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap (Alfonso Cicero, ndr)».
Arrestate Montante, indagate Lo Bello, braccate Cicero, crocifiggete chi si è schierato per tornaconto con loro o fate l’esatto contrario, smontate le accuse e riabilitate un corso ma, vi prego, fatelo presto, e mi rivolgo alla magistratura, perché, senza Giustizia rapida, ci scapperà il morto. Il primo nome è già sulla lista. Per educare un popolo.
r.galullo@ilsole24ore.com