Cari amici di blog, due giorni fa sono state arrestate 35 persone (oltre a tre finiti ai domiciliari) accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi. Al centro delle indagini delegate al Ros dei Carabinieri dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, tre sodalizi della ’ndrangheta radicati nel Comasco e nel Lecchese, con diffuse infiltrazioni nel tessuto locale e saldi collegamenti con le cosche calabresi di origine. A colpire l’immaginario collettivo sono state le immagini che coglievano, per la prima volta in Italia (la prima volta fu in Canada nel 1985) i riti di affiliazione e i giuramenti dei nuovi “ingressi”. L’operazione è stata chiamata Insubria e già ieri ho affrontato alcuni aspetti dell’ordinanza firmata il 14 novembre dal Gip Simone Luerti (rimando al post di ieri). Altri ne ho affrontati due giorni fa sul portale del Sole-24 Ore (ai quali rimando attraverso una semplice ricerca con parola chiave nello spazio “cerca” del sito).
Ieri, su questo umile e umido blog, ci siamo concentrati, ancora una volta su un tema a me caro da anni: il ricorso dell’imprenditoria “malata” alle cosche come agenzie di servizi e il capitale sociale della ‘ndrangheta, fatto di pezzi disgustosi di classe dirigente, politica, massoneria deviata, servitori indegni dello Stato, pennivendoli, professionisti venduti.
Ebbene l’indagine fa risaltare il carattere intimidatorio del sodalizio e gli atti che lo manifestano. Sono numerosi gli atti intimidatori posti in essere dal sodalizio nel loro territorio: alcune volte tali atti costituiscono reati autonomi, altre volte non raggiungono (autonomamente) la soglia della rilevanza penale, contribuendo, però, alla prova dell’utilizzo del metodo mafioso.
Il quadro è definito dallo stesso Gip (che recepisce la valutazione della Procura di Milano), inquietante, con un imponente numero di fatti intimidatori, tutti caratterizzati dall’omertà delle vittime (che hanno sempre dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo), e dalla tendenziale non
elevata intensità dell’atto intimidatorio.
Per dare solo un’idea, sono emersi, dal 2008 ad oggi nella zona del Lecchese e del Comasco 462 episodi (401 nella provincia di Como e 61 in quella di Lecco).
I fatti delittuosi, rimasti molto spesso a carico di ignoti, testimoniano della
condizione di assoggettamento e omertà generata dal sodalizio, del pervasivo controllo del territorio operato dalle “locali” (vale a dire cellule strutturate con almeno 50 affiliati) e dell’esteriorizzazione del metodo mafioso.
Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori (sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce o intimidazioni.
Se ciò può essere vero in alcuni casi (il sodalizio può porre in essere in alcuni casi minacce preventive per sollecitare pagamenti), statisticamente, non può essere sempre vero: se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denuncia gli autori, ciò è dovuto a paura, si legge nel provvedimento.
I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori.
Oltre a questo dato non va certo dimenticato che l’utilizzo attuale del metodo mafioso da parte degli indagati e i numerosi episodi ancora a carico di ignoti vanno considerati come volti al mantenimento e al consolidamento di una capacità intimidatoria già ampiamente acquisita da
almeno 40 anni, posto che, per stessa ammissione degli appartenenti al sodalizio di ‘ndrangheta, il “locale” di Calolziocorte è stato fondato 1’8 settembre 1975.
Naturalmente tali atti intimidatori devono essere in qualche modo “compresi”, cioè capiti da parte delle forze investigative che devono essere in grado di saggiare la portata di alcuni episodi evitando sia banalizzazioni che indebite suggestioni e ciò può essere fatto solo se le agenzie di contrasto sono dotate di una sorta di positiva pre comprensione culturale.
Già in passato si è efficacemente sottolineato che «la posposizione della presenza mafiosa e la sua collocazione in un momento logico successivo alla valutazione degli elementi indizianti o probatori, quale elemento utile soltanto ai fini della verifica di un ‘eventuale causale mafiosa, rappresenta il varco attraverso il quale passa trionfalmente la ben sperimentata tecnica difensiva che si riassume appunto nella costante rivendicazione della serenità o obiettività del giudice realizzabile, secondo alcuni, con la valutazione degli elementi di prova nel modo più dissociato possibile dalla pesante presenza della realtà mafiosa. Tesi questa suggestiva ma insidiosa perché rivolta a nascondere che quel che viene rivendicato non è l’obiettività del magistrato – presidio indispensabile al suo giudizio – ma è l’astrazione dalla realtà» (relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia approvata nella seduta del31 marzo 1972, pagina 456).
r.galullo@ilsole24ore.com
2 – to be continued (per la precedente puntata si legga http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/11/19/operazione-insubria-della-dda-di-milano1-imprenditoria-compiacente-e-cosche-come-agenzie-di-servizi/)