Nel momento in cui è alle stelle la polemica sulle (dis)avventure giudiziarie dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, dell’ex onorevole Amedeo Matacena e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, vale la pena di dare un’occhiata all’analisi dei collegamenti da sempre esistenti tra la ‘ndrangheta (che in questo ha soppiantato da decenni Cosa nostra) e il Libano, vera e propria manna per comuni traffici di armi e droga.
Ce lo confermerà, non più tardi del 14 aprile di quest’anno, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, che ad un certo punto affermerà di fronte alla Commissione parlamentare antimafia: «Cosa nostra aveva il monopolio dell'eroina, perché, come sapete bene, attorno a Palermo c’erano molte raffinerie, però già all'epoca la ’ndrangheta portava l'eroina dal Libano e la faceva sbarcare sulle coste davanti al ristorante La Capannina, tra Pellaro e Saline, dove c’è la Liquichimica, quel monumento all’efficienza…».
Ma non mancano i pentiti. Prendiamone uno che è da anni salito alla ribalta: Nino Lo Giudice.
Come sapete ritengo, per alcune cose importanti e non per tutto ovviamente, il collaboratore di giustizia (o ex collaboratore?) Lo Giudice scarsamente (rectius: difficilmente) attendibile.
Le sue ricostruzioni sui motivi per i quali, ad esempio, ha (in collaborazione con altri) piazzato o fatto piazzare bombe a Reggio, il modo in cui ha accusato magistrati con ritardo andati poi neppure assolti ma addirittura con processi mai partiti grazie a richieste di archiviazione presentate dalla stessa Procura di Reggio Calabria, il modo in cui ha accusato una parte della magistratura salvo poi…discolparla per accusarne un’altra, il modo in cui è scappato e durante la latitanza ha gettato fango addosso ad una parte della Dna, il modo in cui è rimasto spesso in silenzio salvo poi parlare, dire e non dire nel corso delle udienze, il modo in cui si è improvvisamente risvegliato ed è tornato sui propri passi ritrattando le dichiarazioni fatte in latitanza a favore degli uni e contro gli altri magistrati e funzionari dello Stato…insomma, ditemi voi se è possibile seguire e credere a tutte queste sue peripezie. Da parte mia come lo ritenevo scarsamente attendibile prima, ho continuato a ritenerlo scarsamente attendibile durante e dopo. Non so quale regia (magari lo sapessi) ci sia sotto ma ho la sensazione che ci sia e che scoprirla (l’ho già detto tante volte) in una città come Reggio, dove bene e male si confondono da sempre (lo ha detto anche il capo della Procura Federico Cafiero De Raho) sarà praticamente impossibile. Reggio è da sempre abituata alle “tragedie” e alle “carrette”.
Impressioni personali, sia ben chiaro, analisi che appartengono a chi scrive e che rientrano nella libertà d’opinione e di pensiero fortunatamente previste in Costituzione (altrimenti chissà che ne sarebbe della già massacrata libertà di stampa!) ma credo difficilmente confutabili vista la girandola degli eventi ai quali costui ci ha fatto assistere. Non sta a me giudicarne l’attendibilità giudiziaria (ci penseranno i giudici ai quali non mi vorrei mai sostituire, a maggior ragione in questo caso in cui l’elemento è davvero, come dire, pirotecnico nelle sue evoluzioni) ma certo esprimo dubbi legittimi sui suoi comportamenti negli anni.
Dov è che Lo Giudice può essere (più) credibile (sempre secondo me, sia ben chiaro)? Quando parla delle cose interne alla ‘ndrangheta militare, della quale ha conoscenze più o meno profonde (la sua famiglia non risulta di prima fascia nella mappa del crimine reggino ma potrei ovviamente sbagliarmi).
Bene, tra queste conoscenze credo rientri anche il modo in cui la ‘ndrangheta (e non solo) è di casa in Libano.
Ebbene, in questo filone è interessante l’interrogatorio che Lo Giudice sostenne l’11 novembre 2010 presso la casa circondariale di Rebibbia alla presenza dell’allora capo della Procura Giuseppe Pignatone, dell’allora aggiunto Michele Prestipino Giarritta e dell’allora sostituta Beatrice Ronchi.
Si parla di armi e di Libano. Leggete qui.
Lo Guidice: no, non ero tranquillo, non ero tranq… non ero io e quindi su questo fatto … cioè mise un … come devo dire … a parte che mi sono preoccupato Dottore io ho mandato Antonio Cortese, ho mandato Antonio Cortese nel mese di febbraio/marzo non mi ricordo quando, ho mandato, l’ho mandato in Libano, l’ho mandato in Libano a fare un acquisto di un grosso quantitativo di armi che poi non è riuscito in quanto, in quanto questi signori libanesi pretendevano tutti i soldi in dollari e io non ho avuto diciamo la strada per cambiare i soldi e quindi è rimasto diciamo appesa questa cosa
…………….
Giuseppe Pignatone: ed è andato in Libano lui?
Lo Giudice Antonino: allora io ho dato 5.000,00 euro a lui in quanto lui aveva un contatto a … in … a Bucarest e precisamente a Craiova con una persona e credo che siano andati in Libano, ma siccome io metto sempre il punto interrogativo, io conosco anche questa persona e quindi credo che sono andati, sono stati là una settimana circa gli ho dato 5.000,00 euro e però è nato questo problema, questo problema che poi diciamo quando io sono ritornato là prima del mio arresto sto parlando un mese, un mese e mezzo fa, sono andato a farmi i denti …
Insomma, ce lo dicono gli inquirenti, ce lo dicono i pentiti: ad unire il Libano e la Calabria non sono solo i cedri.
r.galullo@ilsole24ore.com